Corriere Torino

«Oggi Mediterran­eo sarebbe il film di Matteo Garrone»

L’analisi, le depression­i, la poca memoria e la vita «sempre proiettata in avanti»: Salvatores si racconta e porta al Circolo il suo libro «Lasciateci perdere»

- Francesca Angeleri

Quando nel 1992 un Gabriele Salvatores giovane, emozionato, ricevette dalle mani di Sylvester Stallone l’oscar, disse in uno sgangherat­o e adorabile inglese (quanto lo era il francese di Battiato, quanto lo è il nostro italianiss­imo approccio alle lingue straniere): «Fate come i soldati di Mediterran­eo. Per favore, fermate la guerra. La vita è migliore». Non sapeva che le dichiarazi­oni politiche agli Oscar sono vietate. Venne gentilment­e allontanat­o, «ricordo le luci che si spegnevano», racconta col

Voglia di futuro

Ai giovani auguro il meglio Ma la realtà è che girano molto le p… a sapere che ti sostituira­nno

sorriso. Almeno pare stia sorridendo, durante l’intera chiacchier­ata telefonica, la sua gentilezza, l’ironia, sono palpabili e umane. Insomma, chi se la potrebbe tirare non lo fa. Salvatores ha scritto un libro, insieme a Paola Jacobbi,

Lasciateci perdere (Rizzoli), che era il titolo previsto per

Mediterran­eo, e lo presenta martedì alle 21 al Circolo dei lettori insieme alla coautrice e con la giornalist­a del Corriere Roberta Scorranese.

Se oggi girasse Mediterran­eo, con ciò che è diventato questo mare, che film sarebbe?

«Sarebbe il film di Garrone

(Io capitano, ndr). A quel tempo non c’era la situazione di adesso con tutta questa immigrazio­ne dall’africa, ma c’era la guerra nei Balcani e mentre giravamo ci passavano sopra la testa i caccia americani che andavano in Iraq per quello che fu il primo conflitto. Per questo feci quella dichiarazi­one agli Oscar».

Chissà che brivido gli americani.

«Dopo Mediterran­eo avevo un progetto che si chiamava Cargo, era la storia di una nave di disperati di varie etnie che prima litigavano tra loro e poi si univano per salvare la nave e le loro vite. Non riuscii a realizzarl­o. Il Mediterran­eo è sempre stato un’agorà nella quale si affacciava­no le genti: ci siamo scambiati lingue, musiche, cibi. Nel film una poesia dice che il Mediterran­eo comincia con gli ultimi ulivi e finisce con le prime palme del deserto. Gli americani, dopo la Liberazion­e, volevano annettersi la Sicilia».

Lei pare senza tempo, con la voce e le sembianze giovani.

«Ho 73 anni, vorrei convincerm­i di averla ancora quella freschezza. Credo sia la fortuna di aver fatto il lavoro che amo. E poi, ho pochissima memoria».

Ed è una fortuna? «Ricordo poco le cose belle, che è un peccato, ma anche quelle brutte. E questo mi permette di rimanere attivo sul domani. Ho appena visto e amato il film di Wenders e credo che vivere fino in fondo il presente sia la cosa giusta, anche quando passi l’aspirapolv­ere. Ma non ci riesco. Sono sempre proiettato in avanti e questo non permette di godersi tutto, si va in crisi, si passano delle depression­i». È mai andato in analisi? «Per sei anni. Il libro è nato nello stesso modo. Paola Jacobbi mi faceva delle domande e io, con enorme fatica, parlavo e ricordavo, e gli eventi resuscitav­ano».

Da questo libro, lei ci trarrebbe un film?

Sorride. «Ne Il ritorno di

Casanova, io descrivo un regista che ha un po’ delle mie ossessioni, l’età ma, soprattutt­o, il passaggio del tempo con l’arrivo dei giovani. E la realtà è che ti girano molto le p… a sapere che ti sostituira­nno. Anche se, sia chiaro, io non odio nessuno, tanto meno i giovani cui auguro il meglio».

Qual è il filo di tutto?

«C’è un fil rouge che viene dal teatro, da Shakespear­e, dal Sogno di una notte di mezza estate che tante volte abbiamo messo in scena all’elfo. Ci sono questi ragazzi che scappano dai genitori che vogliono farli sposare come a loro non piace. Fuggono dalla luce di Atene e passano la notte

Il filo rosso

In tutti i miei film i personaggi scappano, vanno in un altrove. Alcuni tornano, ma non tutti

nel bosco oscuro. E poi tornano. In tutti i miei film i personaggi scappano, escono dalla loro comfort zone e vanno in un altrove».

E poi tornano?

«Alcuni, non tutti. Anche nell’ultimo Napoli-new York, tratto da una sceneggiat­ura incompiuta di Fellini e Pinelli, ci sono due bambini napoletani che scappano in America. È la fine degli anni 40. È importante ricordarci che l’italia è il Paese con più migranti al mondo. Diciannove milioni». A Torino non ha mai girato. «No, ma è molto scenografi­ca e cinematogr­afica. Potrebbe essere il set di qualunque luogo, Parigi innanzitut­to».

 ?? ?? Il regista
Gabriele Salvatores arriva a Torino come scrittore, con un libro in cui condivide il personale e il politico, l’amore e l’amicizia, la passione per il cinema, la musica e il teatro
Il regista Gabriele Salvatores arriva a Torino come scrittore, con un libro in cui condivide il personale e il politico, l’amore e l’amicizia, la passione per il cinema, la musica e il teatro

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy