«Oggi Mediterraneo sarebbe il film di Matteo Garrone»
L’analisi, le depressioni, la poca memoria e la vita «sempre proiettata in avanti»: Salvatores si racconta e porta al Circolo il suo libro «Lasciateci perdere»
Quando nel 1992 un Gabriele Salvatores giovane, emozionato, ricevette dalle mani di Sylvester Stallone l’oscar, disse in uno sgangherato e adorabile inglese (quanto lo era il francese di Battiato, quanto lo è il nostro italianissimo approccio alle lingue straniere): «Fate come i soldati di Mediterraneo. Per favore, fermate la guerra. La vita è migliore». Non sapeva che le dichiarazioni politiche agli Oscar sono vietate. Venne gentilmente allontanato, «ricordo le luci che si spegnevano», racconta col
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Voglia di futuro
Ai giovani auguro il meglio Ma la realtà è che girano molto le p… a sapere che ti sostituiranno
sorriso. Almeno pare stia sorridendo, durante l’intera chiacchierata telefonica, la sua gentilezza, l’ironia, sono palpabili e umane. Insomma, chi se la potrebbe tirare non lo fa. Salvatores ha scritto un libro, insieme a Paola Jacobbi,
Lasciateci perdere (Rizzoli), che era il titolo previsto per
Mediterraneo, e lo presenta martedì alle 21 al Circolo dei lettori insieme alla coautrice e con la giornalista del Corriere Roberta Scorranese.
Se oggi girasse Mediterraneo, con ciò che è diventato questo mare, che film sarebbe?
«Sarebbe il film di Garrone
(Io capitano, ndr). A quel tempo non c’era la situazione di adesso con tutta questa immigrazione dall’africa, ma c’era la guerra nei Balcani e mentre giravamo ci passavano sopra la testa i caccia americani che andavano in Iraq per quello che fu il primo conflitto. Per questo feci quella dichiarazione agli Oscar».
Chissà che brivido gli americani.
«Dopo Mediterraneo avevo un progetto che si chiamava Cargo, era la storia di una nave di disperati di varie etnie che prima litigavano tra loro e poi si univano per salvare la nave e le loro vite. Non riuscii a realizzarlo. Il Mediterraneo è sempre stato un’agorà nella quale si affacciavano le genti: ci siamo scambiati lingue, musiche, cibi. Nel film una poesia dice che il Mediterraneo comincia con gli ultimi ulivi e finisce con le prime palme del deserto. Gli americani, dopo la Liberazione, volevano annettersi la Sicilia».
Lei pare senza tempo, con la voce e le sembianze giovani.
«Ho 73 anni, vorrei convincermi di averla ancora quella freschezza. Credo sia la fortuna di aver fatto il lavoro che amo. E poi, ho pochissima memoria».
Ed è una fortuna? «Ricordo poco le cose belle, che è un peccato, ma anche quelle brutte. E questo mi permette di rimanere attivo sul domani. Ho appena visto e amato il film di Wenders e credo che vivere fino in fondo il presente sia la cosa giusta, anche quando passi l’aspirapolvere. Ma non ci riesco. Sono sempre proiettato in avanti e questo non permette di godersi tutto, si va in crisi, si passano delle depressioni». È mai andato in analisi? «Per sei anni. Il libro è nato nello stesso modo. Paola Jacobbi mi faceva delle domande e io, con enorme fatica, parlavo e ricordavo, e gli eventi resuscitavano».
Da questo libro, lei ci trarrebbe un film?
Sorride. «Ne Il ritorno di
Casanova, io descrivo un regista che ha un po’ delle mie ossessioni, l’età ma, soprattutto, il passaggio del tempo con l’arrivo dei giovani. E la realtà è che ti girano molto le p… a sapere che ti sostituiranno. Anche se, sia chiaro, io non odio nessuno, tanto meno i giovani cui auguro il meglio».
Qual è il filo di tutto?
«C’è un fil rouge che viene dal teatro, da Shakespeare, dal Sogno di una notte di mezza estate che tante volte abbiamo messo in scena all’elfo. Ci sono questi ragazzi che scappano dai genitori che vogliono farli sposare come a loro non piace. Fuggono dalla luce di Atene e passano la notte
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Il filo rosso
In tutti i miei film i personaggi scappano, vanno in un altrove. Alcuni tornano, ma non tutti
nel bosco oscuro. E poi tornano. In tutti i miei film i personaggi scappano, escono dalla loro comfort zone e vanno in un altrove».
E poi tornano?
«Alcuni, non tutti. Anche nell’ultimo Napoli-new York, tratto da una sceneggiatura incompiuta di Fellini e Pinelli, ci sono due bambini napoletani che scappano in America. È la fine degli anni 40. È importante ricordarci che l’italia è il Paese con più migranti al mondo. Diciannove milioni». A Torino non ha mai girato. «No, ma è molto scenografica e cinematografica. Potrebbe essere il set di qualunque luogo, Parigi innanzitutto».