Corriere Torino

Il delitto di Carmine Fuoco, due colpi di pistola e tanta omertà

- Di Federico Ferrero

Carmine Fuoco voleva smettere col bar, diceva, perché il lavoro era molto pesante. Anche se, spesso, tirava tardi per giocare a carte con gli ultimi avventori e abbassava la serranda alle due del mattino. Aveva poco più di quarant’anni e viveva a Rivarolo Canavese con la moglie e due figlie, si dava da fare per mantenere la famiglia e, grazie all’attività in proprio, si era procurato delle discrete entrate.

La sera di sabato 30 gennaio 1988 non rincasò. All’alba, a trovarlo fu una vicina di casa, uscita per fare il turno della mattina in fabbrica. Il signor Fuoco era steso lungo il marciapied­e, supino, in una pozza di sangue. Ovviamente, era morto. I carabinier­i, una volta completati i rilievi, cercarono di farsi raccontare la vita del signor Carmine: arrivava dalla provincia di Catanzaro, aveva preso in gestione il bar cinque anni prima, dopo aver lavorato in fabbriche di Rivarolo e di Busano. Niente di rilevante, nel suo vissuto: giusto una segnalazio­ne, una chiusura del locale risalente a qualche anno prima perché si era scoperto che alcuni clienti giocavano alla «passatella», l’antico gioco da osteria già raccontato da Orazio che prevede l’uso — talora smodato — di bevande alcoliche e che, per la sua pericolosi­tà, era stato vietato per ordinanza. Alcuni clienti fissi del locale, poi, avevano dei pregiudizi penali di un certo peso ed erano soliti bighellona­re nel bar della vittima: ma era lo stesso titolare a lamentarsi, talora, della loro presenza troppo assidua, tanto da indurlo a meditare la cessione della licenza. Insomma: non si scorgeva ragione per un fatto tanto violento, peraltro estraneo alla cronaca e alle dinamiche del paese.

Col passare dei giorni, sul caso dell’omicidio di Carmine Fuoco emerse una verità emendata rispetto a quella del delitto nudo e crudo, inspiegabi­le e senza testimoni. Anzitutto, il corpo era stato stranament­e ricomposto e in una posa improbabil­e per una vittima di sparatoria, molto probabilme­nte dalla stessa mano che aveva fatto esplodere i due colpi che l’avevano attinto alla testa. La pistola usata dall’assassino era una calibro 9, maneggiata con cura da qualcuno che sapeva come impiegarla e aveva mira. Qualcun altro, forse, aveva assistito alla scena perché insospetti­to dai botti nel cuore della notte. Inoltre, la persona uccisa non era poi così improbabil­e, come bersaglio di una mano assassina: la sfilata di persone a conoscenza dei fatti servì a raccontare di un uomo talora irascibile, soprattutt­o dopo qualche bicchiere. Qualche giorno prima di morire, il signor Fuoco era stato picchiato al culmine di un alterco e, purtroppo, non era la prima volta che succedeva. «Carmine era un bravo ragazzo», raccontò a un cronista un cliente del bar, «ed era generoso con tutti. Solo che, quando beveva eccessivam­ente, diventava irascibile e cattivo e non c’era modo di calmarlo».

I carabinier­i individuar­ono tre persone che avevano «chiuso» il bar quella sera insieme al gestore. Tre uomini con cui aveva particolar­e confidenza; lo avevano già accompagna­to a casa, in occasione di serate in cui le birre scorrevano con più facilità e il gestore non era in grado di mettersi al volante. Quella sera, però, la vittima era salita sulla sua automobile, una utilitaria Renault, e l’aveva parcheggia­ta in strada, sotto casa. Per un certo tempo, quindi, gli inquirenti si convinsero che il killer dovesse essere scovato in quel gruppo ristretto e che il responsabi­le del delitto si fosse fatto accompagna­re, con una scusa, dal barista con l’intenzione di ammazzarlo. Ma ciascuno di loro fu in grado di offrire degli alibi convincent­i, e vennero depennati dal dossier delle indagini.

Dopodiché, emerse un’altra possibilit­à: che l’esecuzione fosse avvenuta altrove e che il corpo fosse stato depositato apposta davanti al condominio in cui il barista viveva, in un punto particolar­mente visibile dalla camera da letto di casa sua. Come se fosse stato un messaggio, o un affronto. I titolari dell’indagine non trascuraro­no altre ipotesi, come i litigi coniugali, effettivam­ente sussistent­i, e poi la pista dei debiti. Allargando la cerchia degli informati sui fatti, vennero a sapere che Fuoco era dedito al gioco d’azzardo, non solo nel suo bar ma anche in un altro locale, a Castellamo­nte. Ma nessun indizio era decisivo: anche gli accessi di collera della vittima, per quanto spiacevoli, non sembravano essere motivazion­i sufficient­i per un omicidio probabilme­nte premeditat­o. Poteva anche trattarsi di una vicenda antica, che affondava le radici nel passato — Fuoco era emigrato dal sud Italia nel 1963 — e che l’omicida aveva covato per anni, prima di decidersi a risolverla a modo suo.

Molti conoscenti della vittima presero la strada del silenzio, schermando­si dietro i «non so» e i «non ricordo». Tanta omertà diffusa non aiutò il lavoro dei carabinier­i. Poteva essere che qualcuno sapesse qualcosa e avesse paura di dirlo. Ai funerali avevano partecipat­o moltissimi amici e sodali, vecchie conoscenze della fabbrica e gente che si prendeva il caffè al suo bar del Peso. Ma la stessa solidariet­à non si era fatta volontà di dare una mano a chi indagava sul delitto.

Col passare delle settimane, la quotidiani­tà iniziò a far calare il silenzio sul cold case di Carmine Fuoco. Il bar riaprì grazie alla forza di volontà della vedova, il nome del suo assassino non si conobbe mai, l’indagine venne archiviata e mai più riaperta. Tra le possibili piste, alla fine, quella ritenuta più plausibile — rispetto alla vendetta covata da un cliente del bar per le sue intemperan­ze — fu la possibilit­à di un omicidio pianificat­o, nato per vendicare una faccenda di debiti contratti alle carte e, oramai, non ritenuti più saldabili, tanto da indurre i creditori a vendicarsi con mano profession­ale. Un caso nel quale il creditore non ha più interesse a tenere in vita chi gli deve restituire dei soldi, perché sa di non poterli più rivedere.

Il caso Fuoco fu, poi, accostato ad altri delitti avvenuti in zona, come quello di Borgofranc­o ai danni di Carmine Rizzo, panettiere di Strambino, o la morte di Franco Monica, un giovane di Ivrea ucciso sotto casa nel 1990 perché si era infilato negli ambienti scivolosi dei prestatori di soldi illegali. Anche lui freddato sotto casa, di notte, per mano ignota, con un colpo di calibro 9 a distanza ravvicinat­a. Anche lui, come il barista di Rivarolo, in contatto con persone pericolose, membri di clan dediti al racket, della cui esistenza aveva tenuto all’oscuro la famiglia. Un altro caso mai risolto.

● Le tre persone che avevano «chiuso» il bar con Carmine furono in grado di offrire alibi convincent­i

● Fuoco era dedito al gioco d’azzardo, non solo nel suo bar, ma si indagò anche nel passato della vittima, emigrato dal sud Italia nel 1963

● Il bar venne riaperto dalla vedova, il nome dell’assassino non si conobbe mai, l’indagine venne archiviata e mai più riaperta

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La vicenda
Carmine Fuoco, poco più che quarantenn­e, fu trovato davanti a casa sua, in una posa molto improbabil­e per una vittima di sparatoria
Freddato Carmine Fuoco fu rinvenuto in una pozza di sangue, in un punto molto visibile dalla finestra di casa sua; forse però l’agguato è avvenuto altrove e il corpo in un secondo momento trasportat­o. In basso a sinistra, un articolo sul «delitto di Rivarolo» de La Stampa La vicenda Carmine Fuoco, poco più che quarantenn­e, fu trovato davanti a casa sua, in una posa molto improbabil­e per una vittima di sparatoria
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