Il delitto di Carmine Fuoco, due colpi di pistola e tanta omertà
Carmine Fuoco voleva smettere col bar, diceva, perché il lavoro era molto pesante. Anche se, spesso, tirava tardi per giocare a carte con gli ultimi avventori e abbassava la serranda alle due del mattino. Aveva poco più di quarant’anni e viveva a Rivarolo Canavese con la moglie e due figlie, si dava da fare per mantenere la famiglia e, grazie all’attività in proprio, si era procurato delle discrete entrate.
La sera di sabato 30 gennaio 1988 non rincasò. All’alba, a trovarlo fu una vicina di casa, uscita per fare il turno della mattina in fabbrica. Il signor Fuoco era steso lungo il marciapiede, supino, in una pozza di sangue. Ovviamente, era morto. I carabinieri, una volta completati i rilievi, cercarono di farsi raccontare la vita del signor Carmine: arrivava dalla provincia di Catanzaro, aveva preso in gestione il bar cinque anni prima, dopo aver lavorato in fabbriche di Rivarolo e di Busano. Niente di rilevante, nel suo vissuto: giusto una segnalazione, una chiusura del locale risalente a qualche anno prima perché si era scoperto che alcuni clienti giocavano alla «passatella», l’antico gioco da osteria già raccontato da Orazio che prevede l’uso — talora smodato — di bevande alcoliche e che, per la sua pericolosità, era stato vietato per ordinanza. Alcuni clienti fissi del locale, poi, avevano dei pregiudizi penali di un certo peso ed erano soliti bighellonare nel bar della vittima: ma era lo stesso titolare a lamentarsi, talora, della loro presenza troppo assidua, tanto da indurlo a meditare la cessione della licenza. Insomma: non si scorgeva ragione per un fatto tanto violento, peraltro estraneo alla cronaca e alle dinamiche del paese.
Col passare dei giorni, sul caso dell’omicidio di Carmine Fuoco emerse una verità emendata rispetto a quella del delitto nudo e crudo, inspiegabile e senza testimoni. Anzitutto, il corpo era stato stranamente ricomposto e in una posa improbabile per una vittima di sparatoria, molto probabilmente dalla stessa mano che aveva fatto esplodere i due colpi che l’avevano attinto alla testa. La pistola usata dall’assassino era una calibro 9, maneggiata con cura da qualcuno che sapeva come impiegarla e aveva mira. Qualcun altro, forse, aveva assistito alla scena perché insospettito dai botti nel cuore della notte. Inoltre, la persona uccisa non era poi così improbabile, come bersaglio di una mano assassina: la sfilata di persone a conoscenza dei fatti servì a raccontare di un uomo talora irascibile, soprattutto dopo qualche bicchiere. Qualche giorno prima di morire, il signor Fuoco era stato picchiato al culmine di un alterco e, purtroppo, non era la prima volta che succedeva. «Carmine era un bravo ragazzo», raccontò a un cronista un cliente del bar, «ed era generoso con tutti. Solo che, quando beveva eccessivamente, diventava irascibile e cattivo e non c’era modo di calmarlo».
I carabinieri individuarono tre persone che avevano «chiuso» il bar quella sera insieme al gestore. Tre uomini con cui aveva particolare confidenza; lo avevano già accompagnato a casa, in occasione di serate in cui le birre scorrevano con più facilità e il gestore non era in grado di mettersi al volante. Quella sera, però, la vittima era salita sulla sua automobile, una utilitaria Renault, e l’aveva parcheggiata in strada, sotto casa. Per un certo tempo, quindi, gli inquirenti si convinsero che il killer dovesse essere scovato in quel gruppo ristretto e che il responsabile del delitto si fosse fatto accompagnare, con una scusa, dal barista con l’intenzione di ammazzarlo. Ma ciascuno di loro fu in grado di offrire degli alibi convincenti, e vennero depennati dal dossier delle indagini.
Dopodiché, emerse un’altra possibilità: che l’esecuzione fosse avvenuta altrove e che il corpo fosse stato depositato apposta davanti al condominio in cui il barista viveva, in un punto particolarmente visibile dalla camera da letto di casa sua. Come se fosse stato un messaggio, o un affronto. I titolari dell’indagine non trascurarono altre ipotesi, come i litigi coniugali, effettivamente sussistenti, e poi la pista dei debiti. Allargando la cerchia degli informati sui fatti, vennero a sapere che Fuoco era dedito al gioco d’azzardo, non solo nel suo bar ma anche in un altro locale, a Castellamonte. Ma nessun indizio era decisivo: anche gli accessi di collera della vittima, per quanto spiacevoli, non sembravano essere motivazioni sufficienti per un omicidio probabilmente premeditato. Poteva anche trattarsi di una vicenda antica, che affondava le radici nel passato — Fuoco era emigrato dal sud Italia nel 1963 — e che l’omicida aveva covato per anni, prima di decidersi a risolverla a modo suo.
Molti conoscenti della vittima presero la strada del silenzio, schermandosi dietro i «non so» e i «non ricordo». Tanta omertà diffusa non aiutò il lavoro dei carabinieri. Poteva essere che qualcuno sapesse qualcosa e avesse paura di dirlo. Ai funerali avevano partecipato moltissimi amici e sodali, vecchie conoscenze della fabbrica e gente che si prendeva il caffè al suo bar del Peso. Ma la stessa solidarietà non si era fatta volontà di dare una mano a chi indagava sul delitto.
Col passare delle settimane, la quotidianità iniziò a far calare il silenzio sul cold case di Carmine Fuoco. Il bar riaprì grazie alla forza di volontà della vedova, il nome del suo assassino non si conobbe mai, l’indagine venne archiviata e mai più riaperta. Tra le possibili piste, alla fine, quella ritenuta più plausibile — rispetto alla vendetta covata da un cliente del bar per le sue intemperanze — fu la possibilità di un omicidio pianificato, nato per vendicare una faccenda di debiti contratti alle carte e, oramai, non ritenuti più saldabili, tanto da indurre i creditori a vendicarsi con mano professionale. Un caso nel quale il creditore non ha più interesse a tenere in vita chi gli deve restituire dei soldi, perché sa di non poterli più rivedere.
Il caso Fuoco fu, poi, accostato ad altri delitti avvenuti in zona, come quello di Borgofranco ai danni di Carmine Rizzo, panettiere di Strambino, o la morte di Franco Monica, un giovane di Ivrea ucciso sotto casa nel 1990 perché si era infilato negli ambienti scivolosi dei prestatori di soldi illegali. Anche lui freddato sotto casa, di notte, per mano ignota, con un colpo di calibro 9 a distanza ravvicinata. Anche lui, come il barista di Rivarolo, in contatto con persone pericolose, membri di clan dediti al racket, della cui esistenza aveva tenuto all’oscuro la famiglia. Un altro caso mai risolto.
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● Le tre persone che avevano «chiuso» il bar con Carmine furono in grado di offrire alibi convincenti
● Fuoco era dedito al gioco d’azzardo, non solo nel suo bar, ma si indagò anche nel passato della vittima, emigrato dal sud Italia nel 1963
● Il bar venne riaperto dalla vedova, il nome dell’assassino non si conobbe mai, l’indagine venne archiviata e mai più riaperta