«Le opere di Kiefer ci fanno sentire piccoli»
Alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo Vincenzo Trione presenta il suo recente Prologo celeste Nell’atelier di Anselm Kiefer (Einaudi)
«Tra i massimi artisti contemporanei, Anselm Kiefer è riuscito a fare qualcosa che, per grandiosità e ambizione, ha pochi paragoni: ha trasformato i suoi atelier, gli spazi in cui materialmente crea quadri e sculture, in opere d’arte interminabili». Vincenzo Trione, 52 anni, critico e storico dell’arte contemporanea, presenta il suo recente Prologo celeste. Nell’atelier di Anselm Kiefer (Einaudi), oggi alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. «Un originale racconto critico» arricchito da più di 70 fotografie (molte delle quali dello stesso Kiefer), in cui Trione accompagna il lettore dentro i «musei-laboratori-archivi-città» del grande artista tedesco.
Che cos’è il suo libro e che cosa sono gli atelier di Kiefer che lei racconta?
«Prologo celeste nasce dalla mia esperienza diretta nei suoi due atelier di Barjac, nel Sud della Francia, e di Croissy, poco fuori Parigi. Conosco Kiefer da molti anni, ma solo vedendo i luoghi dove la sua arte “si fa” ho compreso nuovi aspetti del suo lavoro... Già Diderot invitava a visitare gli atelier per conoscere davvero l’opera di un artista. A Barjac ho scoperto un’opera d’arte totale, segnata da ininterrotti affioramenti che vanno dal suolo al sottosuolo. Croissy è una sorta di arsenale di materiali eterogenei, che ci consente davvero di penetrare nella mente di Kiefer».
Perché lo paragona a Prometeo, Efesto e Sisifo?
«Kiefer è da sempre affascinato dalla mitologia, perché i miti dell’antichità possono essere continuamente arricchiti da chi viene dopo. Prometeo ha a che vedere con il gesto di Kiefer che si sottrae a ogni minimalismo, mettendosi alla prova in un’operazione debordante e mai tentata prima, abbandonandosi a una consapevole hybris. L’atelier di Efesto è l’antesignano di ogni atelier d’artista, mentre Sisifo suggerisce un’opera che non è mai conclusa. Per Kiefer l’opera d’arte continua a trasformarsi indipendentemente dalla volontà dell’artista stesso ed è destinata ad assecondare il flusso del tempo».
Perché Kiefer è uno dei grandi artisti di oggi?
«La sua opera richiama la grande tradizione romantica ed espressionista del 900, e si fa profeta di scenari apocalittici. Kiefer considera sé stesso non un artista contemporaneo, ma erede di duemila anni di storia. Di fronte alle sue opere, come davanti alla Cappella Sistina, proviamo un senso di reverenza, ci sentiamo piccoli piccoli. Anche per questo è un unicum nel panorama dell’arte del nostro tempo».
Quanto interessa oggi l’arte contemporanea al grande pubblico?
«Molti la percepiscono come un linguaggio autoreferenziale, riservato a una ristretta élite di collezionisti facoltosi. In questo la critica e i giornali giocano un ruolo decisivo, e devono impegnarsi a spiegare, a decifrare, a raccontare i riferimenti e le ragioni degli artisti. Allo stesso modo devono impegnarsi i musei, a partire dalle didascalie dei quadri, troppo spesso criptiche e incapaci di avvicinare il pubblico. Gli strumenti digitali sono fondamentali per sviluppare il racconto e quindi la vocazione altamente democratica di un museo».
Il suo libro viene presentato alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Quanto contano oggi i privati nel mondo dell’arte?
«Dobbiamo uscire dalle contrapposizioni pubblicoprivato: molte fondazioni private svolgono oggi una funzione analoga a quella di un museo pubblico. La Fondazione
Sandretto ad esempio è un modello assoluto in Italia: per le mostre, ma anche per la didattica e grazie ai suoi progetti di mediazione per i visitatori».
Come vede il sistema culturale torinese oggi?
«Forse non ha più lo smalto degli anni 90, quando era un polo di novità per l’arte contemporanea. Sarebbe auspicabile creare un sistema che consenta di uscire da una visione monadica, in cui ognuno ragiona per sé. Oggi serve sicuramente ragionare su programmi e progetti condivisi, e qui sono ancora presenti grandi personalità e istituzioni».
❠ Il pittore tedesco è riuscito a fare qualcosa senza paragoni, per grandiosità e ambizione, trasformando i suoi atelier in opere d’arte interminabili