«Ecco il mio piccolo breviario di sopravvivenza alla vita»
Il cantautore Paolo Benvegnù giovedì all’hiroshima Mon Amour Presenterà il suo nuovo album: «È inutile parlare d’amore»
Avolte le parole ingannano, sembrano dire qualcosa e invece intendono tutt’altro. È il caso di «È inutile parlare d’amore», titolo dell’ultimo album di Paolo Benvegnù, che il cantautore milanese presenterà giovedì a Hiroshima Mon Amour. E il cui significato non è affatto rassegnato come potrebbe sembrare.
«È un’affermazione per paradosso», dice Benvegnù. «In una società dove tutto è improntato sull’utile economico, l’amore in sé è inutile. E ciò lo rende unico e meraviglioso: un’oasi di libertà».
Vale lo stesso discorso (e sorpresa) per la canzone «Il nostro amore indifferente»?
«Sì. Significa che a dispetto delle difficoltà della vita, il nostro amore “non differisce”, non si discorda o distacca».
«Marlene Dietrich» invece è una carrellata su cinema e arte di inizio Novecento: la Dietrich, Greta Garbo, Rodolfo Valentino. Come mai?
«Perché sono un uomo del Novecento e il mio immaginario è stato sviluppato dal cinema. Ma è soprattutto un omaggio alla forza del femminile. Guardando a cento anni fa, comunque, mi sembra che tutto fosse molto più libero di oggi. Di sicuro non c’erano le telecamere a controllarci, quelle che avrebbero dovuto essere le protagoniste di quest’album».
In che senso?
«Avrebbe dovuto ruotare attorno all’idea di “transmiserabilia”, riferita al fatto che oggi tutto è in trasformazione, ma — complici telecamere e schermi — non si riesce ad andare verso l’essenziale e si finisce nella miseria. Soltanto che stava venendo fuori solo un’invettiva e mi sono chiesto: cosa avrebbero fatto Omero e Shakespeare? Allora siamo passati all’epica e abbiamo ricominciato da capo, inventando dei personaggi e scrivendo un album-romanzo: un piccolo breviario di sopravvivenza alla vita».
Dove spicca la ballad «Pescatori di perle», che sembra fatta apposta per Sanremo.
«Infatti l’abbiamo presentata al Festival, ma non l’hanno presa. Evidentemente la sua armonia è fin troppo semplice per i Sanremi degli ultimi anni».
«Canzoni brutte» invece richiama molto i Perturbazione, il gruppo rivolese con cui lavorò vent’anni fa alla produzione del disco «Canzoni allo specchio».
«Non me n’ero reso conto, ma me l’hanno detto in molti.
Ho sempre cercato di imparare la leggerezza da Gigi Giancursi (ex-chitarrista e co-autore dei Perturbazione, ndr), solo che lui è un angelo e io rimango un terricolo. Ai tempi degli Scisma riuscivo a essere un po’ più leggero, perché a cantare c’era Sara Mazo».
È un buon periodo per le reunion: sta per uscire un album dei La Crus, sono tornati persino i Cccp, non è che anche gli Scisma...?
«Penso che il ritorno del 2015, con un disco e quattro concerti, sia stato un finale bellissimo per gli Scisma. Rimaniamo amici, fratelli e sorelle, ma abbiamo vite troppo diverse, sparsi come siamo tra Umbria, Garda, Santo Domingo».
Da quanto tempo non suonava all’hiroshima?
«Nel 2021 ho fatto il palco estivo, ma ero solo e mi sentivo un po’ nudo. Giovedì sarò con la band e non vedo l’ora di aggiungere un nuovo capitolo a una relazione con il locale che dura da trent’anni. La prima volta, da spettatore, il club era ancora in via Belfiore. Arrivavo dal Lago di Garda per vedere i Casino Royale, ma non avevo i soldi per pagarmi autostrada e benzina e a ogni discesa mettevo in folle per risparmiare carburante. Fu una nottata epica e trascendente, come è il senso di questo disco: scostiamoci dall’io, entriamo nella fase del noi, non accontentiamoci della realtà che ci azzanna e andiamo a caccia del trascendente. Come fanno i protagonisti dell’“orlando Furioso”, una grande epica sull’amore in cui tutti inseguono il mistero degli altri».
Il paradosso
«Nella società che bada solo all’utile economico l’amore diventa inutile e quindi meraviglioso»