«Gipo per scappare dal Medio Oriente fece il corriere di oppio E amò una spia russa»
Valentina Farassino, 52 anni, architetto e interior designer, è la figlia di Gipo. È l’ultima della famiglia: Gipo se n’è andato dieci anni fa, prima era mancata la mamma Lia Scutari e ancor prima, nel 2005, la tragica fine della sorella Caterina, la fotografa del rock morta in un incidente stradale. Valentina è la custode della memoria. Una memoria che si concreta nelle iniziative benefiche della Fondazione intitolata a Caterina e Gipo: prossimi progetti sono uno spettacolo ad aprile e un disco di inediti del Gipo, 22 canzoni in italiano scritte quando già la malattia stava facendo il suo sporco lavoro. Sarà pronto fra qualche mese, servirà a raccogliere fondi per i prossimi progetti della Fondazione.
Ma Valentina è anche una delle mie più care amiche. Le sue perdite — che sono anche mie — hanno rafforzato il nostro legame, e dunque il racconto di «Gipo mio padre» è per noi, intervistata e intervistatore, un viaggio dulcamaro nei nostri giorni passati. Un viaggio che non può che cominciare da quella casa di via Cuneo «che gnanca na vòlta l’era nen bela».
Tuo padre veniva da una famiglia umile, era nato in Barriera di Milano...
«E non aveva manco preso il diploma da ragioniere, aveva mollato dopo due anni».
Ma era un uomo di grandi curiosità e grande cultura. Nella sua biblioteca c’erano Platone, Aristotele, Kant, Cartesio, Gramsci, Marx, e saggi sull’anarchia, il colonialismo, il socialismo...
«Da adulto ha voluto studiare perché, mi diceva, aveva capito che sapere lo avrebbe portato a un altro livello nella vita. La Storia soprattutto lo appassionava».
Anche la politica. Prima nel Pci, poi nella Lega. Dando così ragione a D’alema quando definiva la Lega una costola della sinistra. Con la Lega nel ‘92 diventò parlamentare. Come viveva quell’esperienza?
«All’inizio era entusiasta. All’epoca della Lega Nord Piemont lui pensava che ci si potesse staccare, economicamente, da Roma: ma a un certo punto si rese conto, almeno a suo parere, che Bossi voleva privilegiare Milano. Ma come, diceva, io vado via da Roma per finire sotto Milano? E si sentì tradito nel ‘93, quando puntava a candidarsi sindaco di Torino contro Castellani, e aveva buone possibilità di vincere perché in lui i torinesi vedevano uno che avrebbe fatto gli interessi della città: invece la Lega, per calcoli politici, candidò il cuneese Comino. Perdendo».
Fra il 2004 e il 2005, come indipendente, fu assessore regionale all’identità del Piemonte nella prima giunta Ghigo. Una giunta di centrodestra. Eppure tua sorella Caterina mi raccontò che lui, nel suo ufficio, teneva la foto degli Africa Unite: quanto di più antidestra ci fosse nella scena musicale dell’epoca.
«Papà amava la musica, e rispettava i musicisti. E gli Africa erano amici di Caterina... Certo, tra le band dell’epoca c’erano persone molto di sinistra, che magari all’inizio guardavano me e Cate con sospetto, sai, il pregiudizio sulle “figlie di...”: poi ci si conosce, e se sei intelligente ti fai un’idea tua».
Tant’è che alla fine tuo padre diventò un’icona di giovani musicisti che potevano essere suoi figli. Alcuni fecero spettacoli con lui, e lui era
Gipo Farassino a destra nella foto amava la lingua napoletana che parlava benissimo. Ma non si sarebbe mai staccato da Torino per fare teatro
di casa ai Murazzi.
«Capitava che tardasse a rincasare e io, preoccupata, lo chiamavo, dove sei papà? Sono passato ai Murazzi, mi rispondeva, sto qui da Giancarlo a bermi una birra... Credo che molto sia dipeso anche dalla morte di Caterina: il dolore ha creato un legame fra artisti in apparenza diversi. Ma lui era curioso delle persone, voleva capirle. A volte si sedeva da Mulassano, e stava lì delle mezze ore a guardare il passeggio: scopro l’umanità, mi diceva».
Negli anni Sessanta tuo papà arrivò al successo nazionale con alcune belle canzoni in italiano. Ma poi scelse il piemontese, che forse lo ha un po’ limitato.
«Lui credeva nel piemontese, voleva dimostrare che può esprimere qualsiasi sentimento. Aveva anche un altro amore: il napoletano. Lo aveva studiato, lo parlava con un accento perfetto. Quando lavorava a Napoli non si perdeva una sceneggiata di Mario Merola, che ammirava tantissimo. Però aveva le radici a Torino, non se ne sarebbe mai staccato. Disse persino di no a Strehler che lo chiamò al Piccolo Teatro, perché si sarebbe dovuto trasferire a Milano. Lui voleva fare teatro qua. A Torino».
Gipo era un vero uomo di barriera: schietto, aperto, ma all’occorrenza sapeva essere un duro.
«Io sono un ragazzo di strada, diceva. Costretto dalla vita a crescere in fretta: nel ‘45 perse il padre, Alessandro, che era carabiniere. Per la verità era un musicista che si era arruolato per guadagnarsi il pane suonando il sax nella banda dei carabinieri, ma il 25 aprile, in quel clima di regolamenti di conti, gli spararono davanti a casa, e papà si trovò
● Valentina Farassino, 52 anni, architetto e interior designer, è la figlia di Giuseppe detto Gipo
● Suo padre è stato cantautore, attore e politico
● Nel repertorio in piemontese si è spesso avvicinato al cabaret e all’umorismo: nei suoi anni migliori, ha cantato le miserie e le nobiltà della gente comune a undici anni a dover lavorare, a volte rubare, per aiutare la madre e la sorella. E imparò la legge della strada, che significava anche saper fare a botte. Diciamo che ha avuto una giovinezza avventurosa. Pensa che per un periodo andò a lavorare come orchestrale in Medio Oriente, ed era lì, mi pare a Baghdad, quando scoppiò non so che scompiglio: non era possibile tornare in Italia con mezzi normali e lui, pur di scappare, accettò di trasportare un carico di oppio, e con lui c’era un arabo, e per tutto il viaggio lui non dormì un minuto per timore che l’altro gli tagliasse la gola e scappasse con l’oppio...».
Robe da film.
«Beh, vogliamo parlare di quando a Parigi ebbe una storia con una tipa che in realtà era una spia sovietica?».
Ho già il titolo: “Zero zero Gipo la spia che mi amava”.
«Di certe esperienze qualcosa gli era rimasto dentro. Sapeva difendersi. Una volta era all’assietta con la Lega per la festa del Piemonte: ci fu un tafferuglio con le forze dell’ordine, un finanziere tentò di manganellarlo, lui schivò il colpo e rispose con una testata che spaccò il sopracciglio al finanziere. Non volevo farlo, mi raccontava, ma certi movimenti di difesa sono istintivi, se hai la tecnica, e io ho la tecnica. Non conosceva la paura. Anche da vecchio, se per strada vedeva uno che faceva pipì contro il muro, lo redarguiva: crinass!, gli gridava, va’ via! Col rischio che quello reagisse male. Era fatto così, barrierante per sempre».
Era un duro anche con voi figlie?
«No, era giustamente severo. Non ci ha viziate. Devi studiare, rientri all’ora che ti dico io, finché vivete sotto il mio tetto fate a modo mio. Ma in casa, con me, mia sorella e mia mamma, apriva il suo cuore e le sue fragilità. Era tenero e affettuoso, si commuoveva per piccole cose, un animale maltrattato, un film, e soprattutto gli affetti famigliari. Per me e Caterina nutriva un amore immenso. La morte di Cate fu un dolore intollerabile, non lo ha mai superato. In tutta la vita l’ho visto piangere solo quella volta».
La Fondazione benefica fu la sua maniera di reagire.
«Sì, e gliene sono grata, perché quando raggiungiamo un obiettivo penso che abbiamo fatto qualcosa che Cate avrebbe voluto fare, ed è come se lei e papà fossero ancora qui».