Balbo, filosofo alla ricerca e non «conte rosso»
Il filosofo Felice Balbo di Vinadio ( Torino 1914-Roma 1964 ) appartenne ad una delle più importanti famiglie del vecchio Piemonte risorgimentale ed è stato tra le voci più significative della cultura nata dalla Resistenza, anche se le posizioni che assunse in tempi successivi lo portarono all’isolamento e all’oblio. Solo Bobbio ne scrisse nella sua bella
Storia della cultura torinese che affronta il periodo da Gobetti a Pavese. Un dialogo fecondo fu quello che stabilì con Bobbio e un altro «irregolare» torinese e romano come Augusto Del Noce. Se si ripercorre la vita e l’opera di Balbo si potrà notare l’ autonomia della sua ricerca filosofica e umana e la sua estraneità all’alveare delle appartenenze ideologiche. Il crociano Balbo con Francesco Rodano, Marisa Cinciari e Adriano Ossicini tra il 1943 ed il 1945 fondò il Movimento dei Cattolici Comunisti, il Movimento dei Lavoratori Cristiani e poi il Partito della Sinistra Cristiana. Nel 1945 si iscrisse al Partito comunista italiano con un esplicito riferimento allo Statuto del partito che non richiedeva l’adesione degli iscritti alla filosofia marxista, secondo la visione togliattiana di apertura al mondo cattolico. Due anni dopo Balbo prenderà le distanze dal partito. La scomunica dei comunisti da parte di Pio XII può aver influito su Balbo che nel 1950 non rinnovò la tessera. Nel 1945 aveva pubblicato il fondamentale libro L’uomo senza miti e nell’anno successivo Il
laboratorio dell’uomo, che dimostrano come un laico crociano convertitosi alla fede cristiana ed affascinato dalla rivoluzione proletaria anche sull’onda della Resistenza, avesse tentato di intraprendere da uomo perennemente inquieto «un grande viaggio in ogni senso e in ogni dove, dentro e fuori di sé». C’ è chi rozzamente parlò di un conte rosso che tentò di mescolare il diavolo con l’acqua santa. Non fu così. Su tutt’altri presupposti si espletò l’esperienza di Elio Vittorini anche lui entrato ed uscito dal Pci con polemiche roventi. Balbo, al di là delle scelte politiche contingenti, aveva colto come forse nessun altro la crisi dell’intellettuale novecentesco con le sue certezze inossidabili tanto criticate da Bobbio. Per il filosofo, l’intellettuale deve essere un anticipatore ,cioè «capace di vedere e capire i significati del tempo». Scrisse testualmente: «L’ intellettuale non deve appartenere a coloro che decidono o che muovono le masse, ma a coloro che propongono, che sollecitano, che ideano e aprono vie, che portano a verità l’ opinione confusa e contraddittoria …». È interessante ricordare come Balbo, che aderì al Pci, abbia sempre parlato di «collaborazione» e non di «conciliazione» tra religione e marxismo, rifiutando il partito «come un clan e il marxismo come una metafisica , una cultura già bell’e fatta e compiuta». Tutta la vicenda del suo incontro e del suo distacco dal comunismo è pienamente comprensibile: da un lato egli sentì profonda l’ ingiustizia della società borghese e quindi «l’impossibilità di rifiutare la denuncia comunista» ; nel contempo non poté «accettare la soluzione comunista» ai problemi di libertà, di giustizia e dignità umana che egli considerò sempre valori irrinunciabili come uomo prima ancora che come cristiano. Natalia Ginzburg nel suo Lessico
famigliare, in cui parla della sua amicizia con Balbo, mette in evidenza un particolare che dà l’idea di come egli si rapportasse con i giovani: non parlava mai di politica davanti ai figli perché non voleva in qualche modo condizionarli. Balbo fu uno spirito critico e, per certi versi, «liberale», incapace di diventare un militante.