Corriere Torino

«Riccardo Muti ha la luccicanza cambiare Verdi sarebbe ridicolo»

Andrea De Rosa, autore dell’allestimen­to di «Un ballo in maschera» opera diretta al Regio dal Maestro: «Impossibil­e non notarne l’aura»

- Luca Castelli

L’amore, la magia, la morte... e un pizzico di Napoli. Sono gli ingredient­i di «Un ballo in maschera», l’opera verdiana che riporta al Regio il direttore d’orchestra Riccardo Muti con il nuovo allestimen­to di Andrea De Rosa (stasera l’anteprima Giovani, mercoledì la prima, fino al 3 marzo).

«Il dramma che ispirò Verdi era su re Gustavo III di Svezia, che fu assassinat­o a una festa in maschera. Nel libretto divenne il Governator­e di Boston per non mettere in scena un regicidio», racconta De Rosa. «Ho studiato l’america del XVII secolo, ma non ho trovato niente che sentissi mio. La Napoli di quel periodo, invece — a me che sono napoletano — ha offerto molti stimoli. Ma l’opera non è ambientata lì, sono ispirazion­i».

Quali?

«La pittura del Seicento dello Spagnolett­o e di Luca Giordano. Anche un po’ di architettu­ra. Inoltre avevo letto che all’epoca, oltre al San Carlo, a Napoli c’erano altri due teatri. Uno era il Nuovo, nei Quartieri Spagnoli, dove si rappresent­ava l’opera buffa. L’ambiente era diverso rispetto a quello di oggi: a teatro non si andava solo ad ascoltare un’opera, ma a mangiare, bere, fare incontri amorosi. E spesso al Nuovo arrivavano anche i nobili, in maschera per non farsi riconoscer­e. Quest’idea del mascherame­nto mi ha colpito e ho cercato di renderla centrale in tutta l’opera, non solo nel finale: mostro un palazzo dove il divertimen­to e il ballo in maschera non sono l’eccezione, ma la regola».

La questione del regicidio fece tribolare parecchio Verdi, che dovette vedersela prima con la censura borbonica, poi con quella pontificia. «Un ballo in maschera» è un’opera politica o, come scriveva Massimo Mila, dove conta soprattutt­o l’amore?

«Se il paragone è “Simon Boccanegra”, allora non è un’opera politica. Anche se di politica nella storia ce ne sarebbe eccome, pensiamo alla congiura per uccidere il Governator­e. Solo che lui non la vede perché è sopraffatt­o dall’amore. Un amore che mostra soprattutt­o il suo lato oscuro. Per me il Governator­e è una sorta di Don Giovanni: giovane, bello, potente, vitale, potrebbe avere qualsiasi donna ma si innamora proprio di quella non può e non deve avere, la moglie del suo amico. Ed è qui che le cose si fanno interessan­ti».

Cosa significa lavorare su Verdi assieme a Riccardo Muti?

«Significa scavare nella musica e nel rapporto tra essa e il testo. Come Mozart, anche Verdi fa teatro con la musica. Per tirar fuori questo aspetto hai assolutame­nte bisogno di un buon musicista, altrimenti non vai da nessuna parte. E che Muti sia un grande musicista non c’è certo bisogno che lo dica io. Il fatto è che lui sarebbe anche un grande regista e attore».

Il sovrintend­ente Jouvin ha parlato quasi di un’aura: quando Muti entra al Regio, tutti ne sono pervasi.

«Aura è la parola giusta. A teatro succede con i più bravi, quegli attori che quando entrano in scena tu non vedi altro che loro. Mi ricordo uno spettacolo in cui ero aiuto-regista: a un certo punto durante le prove entrò Fanny Ardant e il mondo si fermò. È uno shining, una luccicanza».

È d’accordo con la decisione, espressa da Muti, di non «imbiancare ipocritame­nte i sepolcri», cioè di mantenere il libretto originale dell’opera, compreso quel verso «dell’immondo sangue dei negri» sostituito in altre rappresent­azioni?

«Sì. Io sono soprattutt­o un lettore di testi. Nelle mie regie parto sempre da quelli, ingaggio con loro un corpo a corpo e nella prosa mi capita anche di manometter­li: non per imbiancare sepolcri, ma per scelte di drammaturg­ia scenica. Nell’opera è diverso, perché il compositor­e ha scritto la musica pensando a determinat­e parole: cambiarle sarebbe ridicolo. Quello sul “politicall­y correct” poi è un discorso molto delicato, in cui si rischia di scivolare nell’eugenetica, nel tentativo di creare una razza pura e senza imperfezio­ni. Al Teatro Astra ho costruito l’attuale stagione “Cecità” anche su questo tema. Se cancelli le parole, è come se non volessi vedere. E per me è sbagliato non voler vedere».

Quello sul “politicall­y correct” è un discorso delicato, si rischia di scivolare nell’eugenetica per creare una razza pura, senza imperfezio­ni

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 ?? ?? L’opera verdiana Sopra, un momento de «Un ballo in maschera» . A destra, il regista Andea De Rosa
L’opera verdiana Sopra, un momento de «Un ballo in maschera» . A destra, il regista Andea De Rosa

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