«Papà, un vero patriota Per non essere “il figlio di” studiai storia dell’arte anziché archeologia»
Guido Curto, oggi direttore della Reggia di Venaria, racconta Silvio, uno dei massimi egittologi italiani
Quest’anno si celebra il bicentenario del Museo Egizio. Ma sempre nel 2024 cadono altri due anniversari tondi: sessant’anni fa, nel 1964, Silvio Curto — nato a Bra nel 1919, uno dei massimi egittologi italiani di tutti i tempi — assumeva la direzione del Museo; e giusto quarant’anni fa, nel 1984, la lasciava, per raggiunti limiti d’età.
Silvio Curto è mancato nel 2015. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente, a parte qualche fuggevole incrocio. Invece conosco da una vita suo figlio Guido, che ad agosto conclude il sua mandato di direttore della Reggia di Venaria e del Consorzio della Residenze Sabaude, ultimo incarico di una carriera che lo ha visto prima alla direzione dell’accademia Albertina e poi di Palazzo Madama. Una dinastia di direttori, i Curto. E la prima domanda di questa intervista è scontata.
Il modello paterno ti ha influenzato nelle scelte professionali?
«Al contrario. Io ero iscritto alla facoltà di Lettere con indirizzo Archeologia e Storia dell’arte ma, proprio per non essere sempre “il figlio di”, scelsi Storia dell’arte: anche perché, confesso, non impazzivo per l’archeologia, né per l’egittologia. Non mi appassionava, l’antico Egitto: quello moderno sì. Da ragazzo, a volte, ci andavo con mio padre, ma agli scavi papà non mi ci portava; così, mentre lui scavava o partecipava ai convegni, io giravo per il Cairo, scoprivo il deserto, i tramonti sul Nilo, e me ne sono innamorato». Era un padre presente? «Presentissimo, per quanto possibile. Ma anche assentissimo perché il suo lavoro era la sua passione più grande, una passione che lo teneva spesso lontano da casa e che causava le poche liti che ricordo fra i miei genitori: mia madre si lamentava, lavori troppo, sei sempre al Museo... Quand’ero adolescente, negli anni Sessanta, papà fu impegnato nel salvataggio dei monumenti che altrimenti sarebbero stati sommersi dalle acque della diga di Assuan. Per molti anni, tra luglio e agosto, quando il Nilo era basso, lui stava là a scavare, e quindi non trascorreva con noi le vacanze estive. Sì, pativo molto quelle assenze».
Partecipare al salvataggio dei monumenti della Nubia fu forse la sua impresa più grande.
«Terribile, quasi gli venne un esaurimento nervoso. Ma portò frutti meravigliosi. Mi padre aveva un ottimo rapporto con Nasser, il presidente egiziano; e alla fine del lavori Nasser decise che, tra tante nazioni che avevano contribuito a quella grandiosa operazione, anche l’italia meritava un segno di riconoscenza, e donò al Museo Egizio il tempietto di Ellesija. Per portarlo a Torino, il tempio andava estratto dalla roccia e tagliato in blocchi. C’era poco tempo, il Nilo cominciava a salire, mio padre e i suoi operai lavorarono come dannati e finalmente, dopo un viaggio memorabile, i blocchi nell’autunno del 1970 arrivarono a Torino. Al Museo il tempio fu ricostruito: però non aveva il soffitto, e allora il vecchio Pininfarina, che era amico di mio padre, ne fece fabbricare uno, gratis, utilizzando una scocca battuta da un bravo battilastra e ricoperta con sabbia incollata. Insomma, si può dire che il tetto del tempio di Ellesija è carrozzato Pininfarina».
Grande egittologo, docente universitario celebre... Immagino che babbo Curto pretendesse molto dal rendimento scolastico del figlio.
«Beh, era felice che avessi fatto il liceo classico, insisteva sullo studio del greco, ma credo che neanche sapesse che voti prendevo. Io andavo bene, e lui non mi stressava. Invece teneva molto a trasmettermi i valori etici, era un grande patriota...».
Aveva combattuto nella Seconda guerra mondiale.
«Già. E si fece quattro anni di prigionia. Nel ‘41 era ufficiale in Tunisia, fu catturato dagli inglesi e internato in Marocco, poi gli americani lo portarono in un campo di concentramento in Texas, a Hereford, dove erano rinchiusi altri intellettuali, ad esempio Alberto Burri, l’artista; e lì misero su persino una piccola “università” interna... Alla fine lo trasferirono alle Hawaii, che uno pensa beh, le Hawaii... Ma non era una vacanza, stava in prigione, faceva la fame... E sua madre per un anno non seppe se era vivo o morto. Furono anni faticosi, che però gli avevano pure lasciato qualche buon ricordo. Ad esempio, in Texas aveva scoperto la musica country che, insieme con la lettura e le lunghe escursioni in montagna, era una delle sue passioni: beninteso oltre al lavoro».
Un lavoro cominciato quando tornò in Italia, nel ‘46, ed entrò all’egizio.
«Sì, ma entrò dalla porta di servizio. Lui, laureato in Archeologia, fu assunto con la qualifica di operaio specializzato. Quello c’era, non potevi fare lo schizzinoso. A poco a poco riuscì a diventare ispettore, nel ‘64 direttore e nel ‘71 anche soprintendente».
Una carriera dal basso, sempre nella stessa struttura. «Allora era possibile, a differenza di oggi che ogni quattro-cinque anni il direttore cambia. In quattro anni tu cominci a conoscere la macchina, ci lavori e sul più bello, al momento di raccogliere i primi risultati, te ne vai. È nevrotizzante. I tempi di una buona carriera dirigenziale dovrebbero essere almeno di dieci, se non quindici anni».
Quasi quarant’anni all’egizio, venti da direttore, sono una lunga storia d’amore...
«Lui amava visceralmente il Museo, che a quei tempi era sottovalutato e poverissimo. Anche gli stipendi erano modesti: per tutta la vita mio padre ha guadagnato poco, prendeva di più mia madre Maria che era impiegata Fiat. Ma credo che papà neanche sapesse quant’era il suo stipendio. Era la mamma a occuparsi delle faccende di soldi, in casa».
Lui già doveva sbrogliarsela con le ristrettezze del Museo...
«Non c’erano neppure i soldi per cambiare le lampadine, le comperava lui di tasca propria. Mancavano i custodi, il Museo chiudeva alle 2 del pomeriggio e non apriva la domenica. Non era considerato, più che altro lo visitavano le scolaresche».
Una differenza abissale rispetto all’egizio di oggi...
«Il sogno di mio padre era un Museo come quello che abbiamo adesso. Lui se n’è andato a 95 anni, felice perché vedeva coronato quel sogno. Ha fatto in tempo a conoscere Christian Greco e ne era entusiasta. Invece non gli piaceva lo statuario allestito da Dante Ferretti».
Che risale al 2012, prima di Greco.
«Sì. Sembra una discoteca, mi diceva, e invece quelle statue sono nate per essere viste alla luce del sole, non in penombra con gli specchi. Mio padre considerava gli egizi un popolo solare, ne ammirava la struttura sociale senza discriminazioni fra bianchi e neri, né tra uomini e donne. Anche la loro visione dell’aldilà gli sembrava gioiosa. Una visione che lui, cattolico, condivideva».
Era molto religioso?
«Sì. Non bigotto, ma molto religioso sì. La fede lo aveva aiutato negli anni della prigionia: aveva pregato di uscirne vivo, di rivedere sua madre. E da allora, nei momenti difficili della vita andava sempre alla Consolata a chiedere la grazia».
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Papà fu rinchiuso prima in Texas e poi alle Hawaii, che uno pensa: beh, le Hawaii... Ma non era in vacanza, faceva la fame in prigione
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Al Museo Egizio
Il tempio di Ellesija fu ricostruito: il vecchio Pininfarina, amico di mio padre, fabbricò un tetto nuovo, utilizzando una scocca battuta da un bravo battilastra e ricoperta di sabbia