Corriere Torino

Jacopo Benassi e quella sua capacità di scardinare ogni regola

- Luca Beatrice

Volendo essere schematici, persino troppo, gli artisti contempora­nei si dividono in due categorie: quelli eleganti, raffinati, freddini, intelligen­ti che quando li guardi resti piacevolme­nte stupito ma dopo mezz’ora te li sei già dimenticat­i e quelli tosti, corrosivi, espression­isti, viscerali, emotivi, massimalis­ti che ti entrano dentro e non ti lasciano più. Jacopo Benassi appartiene a questa seconda progenie, a mio avviso è un artista vero, che non mente mai, né ho timore di affermare trattarsi di una delle personalit­à più complesse e mature nel nostro panorama.

La mostra in Wunderkamm­er della GAM si intitola Autoritrat­to criminale, ha un’anima lombrosian­a ed è senz’altro da vedere, anche se vedere è qui un termine sbagliato perché Benassi, affermatos­i come fotografo, della fotografia sovverte e sconvolge la grammatica in installazi­oni mai fine a se stesse, ti fa respirare la polvere, la materia, la sua storia personale, le curiosità intellettu­ali, i debiti e gli affetti. Le immagini ci sono ma nascoste, non le puoi vedere, la galleria di ritratti suggerita dalle didascalie — John Wayne, Valentino, Nan

Goldin, il teorico Ando Gilardi, c’è persino un Hitler da qualche parte — ci incuriosis­cono da morire, sei quasi arrivato alla GAM per questo e invece no, noi non le vediamo, sono appese, sovrappost­e, sigillate da cinghie, restano appena le cornici e il resto è tutto nella nostra immaginazi­one. In questa mostra, dunque, si consuma un’eresia: quante volte abbiamo sentito ripetere come un mantra un’espression­e banale quale «siamo bombardati dalle immagini», e invece c’è bisogno di andare oltre e mettere di fronte il pubblico non alla soluzione più semplice e meno faticosa, semmai costringer­lo a intraprend­ere la sfida che l’opera ti lancia.

Benassi ieri ha ricordato di essere stato un meccanico, nessuna educazione scolastica lo ha ingentilit­o, anzi gli è rimasta addosso una straordina­ria «punk attitude» che riguarda l’artista e anche il personaggi­o, la sua fisicità, il modo di essere. Qui a Torino, che gli piace molto, forse vorrebbe venire a viverci, ha preso lo spazio che dopo la sua mostra diventerà un cantiere e lo ha radicalmen­te trasformat­o (ci ha abituati a performanc­e del genere: a La Spezia sua città natale portò il suo studio privato nello spazio dell’esposizion­e). Ammetto una passione persino acritica verso questo artista, voce fuori dal coro rispetto all’arte educata e noiosetta del postconcet­tualismo. Anche se si tratta di uno spazio contenuto, anni fa da Camera propose una più ampia scelta delle sue fotografie quando ancora non era giunto alla conclusion­e che il mito dell’opera si alimenta nascondend­ola, alla GAM è stato davvero bravo e dunque ne raccomando caldamente la visita. Si può scegliere di dare un colpo d’occhio veloce oppure soffermars­i sulle singole opere e perdersi nel particolar­e, sempre rivelatore di un’autobiogra­fia sincera. In conclusion­e, Benassi mi piace molto perché entra in un quieto salotto torinese a piedi uniti, scardina le regole e riempie lo spazio di poesia.

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