Jacopo Benassi e quella sua capacità di scardinare ogni regola
Volendo essere schematici, persino troppo, gli artisti contemporanei si dividono in due categorie: quelli eleganti, raffinati, freddini, intelligenti che quando li guardi resti piacevolmente stupito ma dopo mezz’ora te li sei già dimenticati e quelli tosti, corrosivi, espressionisti, viscerali, emotivi, massimalisti che ti entrano dentro e non ti lasciano più. Jacopo Benassi appartiene a questa seconda progenie, a mio avviso è un artista vero, che non mente mai, né ho timore di affermare trattarsi di una delle personalità più complesse e mature nel nostro panorama.
La mostra in Wunderkammer della GAM si intitola Autoritratto criminale, ha un’anima lombrosiana ed è senz’altro da vedere, anche se vedere è qui un termine sbagliato perché Benassi, affermatosi come fotografo, della fotografia sovverte e sconvolge la grammatica in installazioni mai fine a se stesse, ti fa respirare la polvere, la materia, la sua storia personale, le curiosità intellettuali, i debiti e gli affetti. Le immagini ci sono ma nascoste, non le puoi vedere, la galleria di ritratti suggerita dalle didascalie — John Wayne, Valentino, Nan
Goldin, il teorico Ando Gilardi, c’è persino un Hitler da qualche parte — ci incuriosiscono da morire, sei quasi arrivato alla GAM per questo e invece no, noi non le vediamo, sono appese, sovrapposte, sigillate da cinghie, restano appena le cornici e il resto è tutto nella nostra immaginazione. In questa mostra, dunque, si consuma un’eresia: quante volte abbiamo sentito ripetere come un mantra un’espressione banale quale «siamo bombardati dalle immagini», e invece c’è bisogno di andare oltre e mettere di fronte il pubblico non alla soluzione più semplice e meno faticosa, semmai costringerlo a intraprendere la sfida che l’opera ti lancia.
Benassi ieri ha ricordato di essere stato un meccanico, nessuna educazione scolastica lo ha ingentilito, anzi gli è rimasta addosso una straordinaria «punk attitude» che riguarda l’artista e anche il personaggio, la sua fisicità, il modo di essere. Qui a Torino, che gli piace molto, forse vorrebbe venire a viverci, ha preso lo spazio che dopo la sua mostra diventerà un cantiere e lo ha radicalmente trasformato (ci ha abituati a performance del genere: a La Spezia sua città natale portò il suo studio privato nello spazio dell’esposizione). Ammetto una passione persino acritica verso questo artista, voce fuori dal coro rispetto all’arte educata e noiosetta del postconcettualismo. Anche se si tratta di uno spazio contenuto, anni fa da Camera propose una più ampia scelta delle sue fotografie quando ancora non era giunto alla conclusione che il mito dell’opera si alimenta nascondendola, alla GAM è stato davvero bravo e dunque ne raccomando caldamente la visita. Si può scegliere di dare un colpo d’occhio veloce oppure soffermarsi sulle singole opere e perdersi nel particolare, sempre rivelatore di un’autobiografia sincera. In conclusione, Benassi mi piace molto perché entra in un quieto salotto torinese a piedi uniti, scardina le regole e riempie lo spazio di poesia.
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