L’epopea femminista secondo Marta Stella: «Adesso tocca a noi»
La scrittrice presenta il romanzo Clandestine mercoledì al Circolo dei lettori, nell’ambito di Femminile plurale, dialogando con Benedetta Tobagi
«Siamo le figlie di chi ha combattuto la guerra lontano dal fronte. Di chi ha sperato in un riconoscimento mai arrivato e poi, quando tutto è finito, ha dovuto contare i morti. Figlie di chi ha pagato care le proprie scelte in un’italia liberata ma sempre più bigotta che costringe a essere vergini o madri. Ora tocca a noi».
Clandestine è il nuovo romanzo (Bompiani) della scrittrice, giornalista e consulente editoriale Marta Stella. Lo presenta mercoledì alle 18 al Circolo dei lettori, nell’ambito di Femminile plurale. Con lei, in dialogo, c’è Benedetta Tobagi. Attraverso la sua giovane eroina tanto agguerrita quanto smarrita, romanza un’epopea femminile e femminista.
Lei scrive che ora tocca a noi. Noi chi? E cosa ci tocca fare?
«A parlare è la liceale che ha appena lasciato la casa dei genitori. È già la donna che guarda da lontano quella notte clandestina del ‘67 e sa già tutto, conosce il finale. È l’invito alle ragazze e alle donne del suo tempo, il monito impellente a prendere il testimone mancato delle madri, non ancora completamente uscite dalle macerie del dopoguerra, beffate da una ricostruzione che le continua a escludere dopo averle usate come forza lavoro Durante il conflitto. Quel “tocca a noi” è un invito senza tempo».
Per cosa è grata al femminismo?
«Grata di tutto. Di ciò che sono io oggi e di cosa mia figlia potrà decidere di essere. Oggi sembra scontato, ma anche solo il fatto che io sia qui a rispondere a domande sul mio romanzo è una conquista che solo cinquant’anni fa sarebbe stato un fatto eccezionale».
Cosa invece gli rimprovera? Dove si sono incagliate le donne militanti e non?
«C’è stato un mancato passaggio di consegne che ha fatto sì che la mia generazione abbia perso il senso della lotta, del dissenso, della sorellanza profonda, della conquista che ciò che a noi ragazzine degli anni Novanta sembrava banalmente un dato di fatto, nulla di così faticosamente acquisito. Quegli anni incredibili e terrificanti hanno però anche lasciato un residuo amaro, a volte avvelenato. Ciò che hanno vissuto le donne negli anni Settanta è qualcosa di irripetibile e a tratti incomprensibile per le donne di oggi. L’errore risiede nell’idealizzare quegli anni, mitizzarli insieme alle sue protagoniste, banalizzarli o raccontarli per estremi: da una parte le stragi e la lotta armata, dall’altra queste “femministe sempre arrabbiate”.
“Tutto era documentato, tutto era già dimenticato”, dice la protagonista».
Ci sono diverse figure — Gigliola Pierobon, Eugenia Roccella, Emma Bonino, Carla Lonzi, Marie Claire Chevalier e molte altre —, che relazione ha con loro?
«Le ho immaginate come personaggi di un romanzo. Ho maneggiato le loro vite con cura rifuggendo mitizzazione e pregiudizio. Nelle pieghe più oscure ho cercato la loro verità».
Una le è più affine di altre?
«Tutte mi hanno insegnato e donato un pezzo di sé. Difficile scegliere. La prima che citerei però è Adele Faccio, che racconta la propria lotta, ferrea e imprescindibile, ma anche la tenerezza inaudita della maternità, l’essere “madre e moglie per avventura”. Una donna ingiustamente dimenticata».
A che punto è la battaglia femminista e dove risiede oggi l’urgenza?
«Dobbiamo recuperare il passato, le sue parole. Possiamo poi anche decidere di rifare tutto da capo. Ma una revisione profonda e urgente è necessaria, altrimenti gli slogan che ci hanno reso quello che siamo, diventano solamente frasi vuote che finiscono nel tempo della cronaca».
Un riflessione sull’aborto.
«Non è solo italiana ma europea, statunitense, e quindi mondiale. C’è poi la grande occasione persa dell’europa: il sesso senza consenso è sempre stupro. Eppure, nella nostra Europa del 2024, sembra non essere per tutti così».
Come ha scritto?
«Ascoltando incessantemente le grida delle donne in corteo, si sono impossessate delle mie notti».
Passaggio di consegne
La mia generazione ha perso il senso della lotta Gli slogan non devono diventare frasi vuote