A tavola con i dittatori, da Saddam a Pol Pot
Il festival Slavika porta al Circolo dei lettori il giornalista polacco Witold Szablowski, che ha scovato i cuochi di 5 tiranni del Novecento
Anche i dittatori nel loro piccolo mangiano. Ce lo ricorda un libro bizzarro, Come sfamare un
dittatore, che l’autore Witold Szablowski presenterà giovedì al Circolo dei lettori per Slavika, il festival delle culture slave. Polacco, 43 anni, giornalista, Szablowski ha scovato i cuochi personali di cinque tiranni del Novecento (il cubano Fidel Castro, l’iracheno Saddam Hussein, il cambogiano Pol Pot, l’albanese Enver Hoxha e l’ugandese Idi Amin) e — tramite le loro testimonianze — li ha raccontati dall’inconsueta prospettiva dei gusti e delle abitudini a tavola.
«La mia passione per la cucina nasce a Copenaghen, dove ho vissuto dopo l’università e prima di dedicarmi al giornalismo», racconta l’autore. «Avevo bisogno di soldi, così ho iniziato a fare il lavapiatti e nel giro di un anno sono diventato vice-chef. Tornato in Polonia non ho mai dimenticato il fascino dei cuochi, figure dalle molteplici personalità con cui è sempre interessante parlare».
Anni dopo, «ho visto un documentario in cui compariva il cuoco del Maresciallo Tito e ho pensato di scrivere un libro su chi preparava da mangiare ai capi comunisti europei: Jaruzelski, Ceausescu, Breznev. Quando ho proposto il progetto alla Penguin Random House, però, mi è venuto spontaneo essere meno “regionale” e puntare ai dittatori globali».
Il libro ha richiesto quattro anni di lavoro, la cui parte più ardua è stata rintracciare i cuochi e — soprattutto — convincerli a raccontare la loro storia. «All’inizio nessuno voleva parlare. Con quello di Hoxha ho sviluppato la tecnica che poi ho usato con tutti: partire da lontano, chiacchierare di cibo, spezie, figli, salute e solo dopo qualche giorno avvicinarsi al dittatore».
Il risultato è una girandola di aneddoti che generano un effetto strano: alla curiosità si accompagna una sensazione non distante da quella che si prova al cinema di fronte a
il film sulla vita nell’abitazione del comandante del campo di Auschwitz. È divertente scoprire i vezzi alimentari di Saddam Hussein e i suoi paciocchi con il tabasco quando si cimentava alla griglia, un po’ meno ricordarsi di altri suoi vezzi, come quello di usare il gas per reprimere la popolazione curda. Non c’è il rischio di umanizzare troppo i dittatori, di renderli quasi simpatici?
«Per me è l’opposto», risponde Szablowski. «Dobbiamo umanizzarli. Se pensiamo che siano alieni venuti da Marte, significa che non abbiamo capito nulla. Sotto la superficie del cibo, questo libro vuole essere un monito: loro sono umani come noi, dobbiamo tenerne conto se non vogliamo che ritornino. L’intervista più difficile è stata con la cuoca di Pol Pot, che era ancora follemente innamorata di lui. La Cambogia è piena di cimiteri, ti sembra quasi di camminare sulle ossa dei milioni di abitanti massacrati dai khmer rossi. Eppure, parlando di Pol Pot lei ripeteva quanto fosse gentile, bello, dalle buone maniere e dai sorrisi indimenticabili».
Per l’autore giovedì sarà la prima volta a Torino, un debutto che riaccende memorie giovanili. «In Polonia abbiamo sempre avuto tante Fiat, fin dagli anni del comunismo: io ho imparato a guidare su una 126». All’antico amore per il cibo sbocciato nelle cucine di Copenaghen si deve invece forse la scelta che rende ancora più speziato il volume in arrivo a Slavika: i piatti preferiti dal Fidel o Saddam di turno non vengono solo nominati, ma si spiega anche come prepararli. «Spesso le interviste sono avvenute in cucina, mentre i cuochi preparavano ciò di cui mi stavano parlando. Era il modo più naturale, così anch’io ho imparato a farli. Come la zuppa di pesce preferita da Saddam Hussein, che non è una ricetta tipica irachena ma viene tramandata solo all’interno della sua famiglia Al-tikriti. Credo che oggi al mondo esistano solo tre persone in grado di cucinarla come voleva lui: la vedova del dittatore, il suo vecchio cuoco e il sottoscritto».
Sotto la superficie del cibo, questo libro vuole essere un monito: loro sono umani come noi, dobbiamo tenerne conto se non vogliamo che ritornino