«Massimo, Carlo e gli altri Così ho inventato Non stop»
A 92 anni, Voglino torna in città per parlare della famosa trasmissione «Il mio segreto come talent scout? Portare in tv chi non la voleva fare»
«Non stop? L’ho inventato io di sana pianta, anche se poi su quel carro ci sono saliti un po’ tutti». A 92 anni, Bruno Voglino domani torna nella sua Torino dove alle 18 (in via Verdi 31), nell’ambito di Archive Alive e in connessione con il Glocal, Rai Teche Mediateca offre un omaggio alla trasmissione e a Massimo Troisi che vi esordì nel 1977. Prima del film di Raffaele Verzillo Massimo, il mio
cinema secondo me, Voglino lo ricorderà con Alessandro Gaido, la sceneggiatrice Anna Pavignano e l’autore Bruno Gambarotta. «C’è anche Bruno? Bene, quando ci vediamo è come in uno sketch: ha delle uscite che mi fanno diventare matto dalle risate». E Anna Pavignano?
«In Non Stop era una giovane figurante: fu lì che conobbe Troisi con cui iniziò un lungo rapporto di collaborazione. È un talento della sceneggiatura e mi spiace che le nostre vite si siano incrociate solo per caso. Sarò felice di incontrarla dopo tanti anni».
Ennesimo ritorno a casa? «Vivo a Roma, ma Torino è irrinunciabile; sono e rimarrò un torinese verace».
Dunque, Non stop fu una sua idea?
«Certo, ma un po’ perché, con una sorta di contratto capestro, la Rai di allora impediva ai dipendenti di firmare come autore e un po’ perché sono stato un gran fesso a non impormi, Non stop, negli anni, è diventata un po’ figlia di tutti. Perché, vede, a metà anni Settanta, in Rai si aggirava un vulcano esplosignato vo di idee e un giorno, questo matto di nome Bruno Voglino decise che la tv non poteva sopravvivere con le stesse facce».
Così?
«Tutte le sere, in incognito, a mie spese e accompadalla mia splendida moglie, mi metto a esplorare le cosiddette “cantine”. Erano teatrini alla buona che nascevano negli oratori, nei garage, nei cral e nelle bocciofile. Insomma, l’“off degli off ”. Li frequento per due anni: in fondo non amavo guardare la tv, tanto già la facevo».
È li che ha scoperto i protagonisti di Non stop?
«Sì. Da Troisi a Verdone, ai Broncoviz e tutti gli altri». Come andò con Troisi? «Un collega mi disse: “Ieri ho visto tre comici napoletani: la solita roba”. Di lui non mi fidavo, così andai a vedere
La smorfia. Ne rimasi incantato: erano drammaturgia napoletana del miglior lignaggio proiettata nel futuro. Il primo incontro con Massimo si svolse come succede tra timidi, in un misto di cautela e aspirazioni reciproche».
E con Verdone?
«Siamo in tre: io, mia moglie e un altro che a un certo punto fugge via. In scena ci sono una bara e quattro ceri accesi, e Carlo sbuca dalle tende per l’ultimo commiato con una galleria di personaggi esilarante. Semplicemente sublime».
Come definirebbe il format di Non stop?
«Assalto alla Bastiglia, presa del potere, manifesto della Nouvelle vague televisiva: insomma, gli stessi principi rivoluzionari che avremmo utilizzato per riformare la Rai Tre di Guglielmi».
Perché a Torino?
«Lo studio era enorme e io volevo replicare la sensazione dell’orlando furioso di Luca Ronconi, vasto spazio su cui spargere tutti gli attori che si accendono di volta in volta in uno spettacolo itinerante».
E perché Enzo Trapani alla regia?
«Era un irrequieto come me. Gli mimai fedelmente la puntata che avevo in testa, senza sigla e senza presentatore, con le vocine di tutti gli attori. Mi fissò in silenzio per un’ora, poi mi strinse la mano con un laconico “ci sto”».
Qual è il suo segreto di talent-scout?
«Gliene dico due. Se possibile, fare a meno dei provini. Uno studio è un non-luogo “tecno-algido” ma quel che conta è il pubblico. Se c’è il gelo davanti a venti persone, ci sarà anche in tv, e viceversa».
E il secondo?
«Portare in tv chi non la vuole fare, come capitò con i Giancattivi di Nuti, Cenci e Benvenuti. Perché chi la snobba coltiva ambizioni più alte e non si accontenta di quel che la tv è per sua natura: tanta routine e soldi facili».
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