«Madri o non madri, dobbiamo liberarci dalla parentalità»
presenta il suo saggio sul tema della maternità: «Il mito del “puoi essere quel che desideri anche da mamma” è una bugia che fa male alle donne»
« Mio figlio è nato un lunedì di gennaio del 2016 ma, lo dico con onestà: io sono diventata sua madre, nel senso di sentirmi madre, dopo. Quando, grazie alla terapia anche farmacologica nel mio caso, il mio bambino che all’inizio mi era alieno è diventato per me finalmente figlio». Ci sono voluti sei anni di gestazione, ma alla fine è nato Libere. Di scegliere se essere o non essere madri
(Einaudi), in cui Ilaria Maria Dondi chiarisce come non esista un modello unico né di madre né di non madre, né di donna. Lo presenta domani alle 18 al Circolo dei lettori con la direttrice Elena Loewenthal.
Come si sente ora che il libro è pubblicato?
«Mi sto educando a uscire dalla logica performativa. Venderà? Se non venderà me ne faranno pubblicare un altro? È la mia sindrome dell’impostore, testarda anche adesso che ho 42 anni».
Come si è evoluto il progetto?
«Quando da giornalista (è stata direttrice della testata digitale Roba da donne, ndr), che fino ai 35 anni non è stata mamma, ho iniziato a scrivere delle discriminazioni subite nel mondo del lavoro e fuori dalle donne senza figli e anche della narrazione sacrale e romantica della maternità, successero due cose. Da un lato c’era gente che mi scriveva che non meritavo la benedizione di un figlio, dall’altro c’era un coro di donne che condividevano il loro smarrimento. Donne che si sentivano, finalmente, viste. All’inizio doveva essere un saggio, è diventato una sorta di “tana libera tutte”, uno strumento per liberarsi dalla vergogna. Credo serva uno sguardo di insieme, non uno oppositivo tra maternità e non».
Quanto ha bisogno il femminismo di una riflessione sulla maternità e quanto è forte la tentazione di considerarla marginale?
«Dalla seconda ondata in poi, il femminismo ha continuato a confrontarsi e scontrarsi con la maternità. Nel momento stesso in cui ha voluto sottrarsi, come è giusto, ad essa come condizione identitaria per la donna anche quando madre non è e non lo diventerà magari mai, di fatto sta ancora definendosi in sottrazione rispetto a qualcosa che si vuole rifiutare. Pensiamo anche all’invenzione femminista della maternità simbolica, del dirsi cioè madri di libri, idee, opere, eccetera. Io sono dell’idea di Rossana Rossanda per cui essa è ancora l’enfasi sulla necessità di una discendenza e di una riproduzione: come lei non la incoraggio, mi sembra che sia necessario liberarci dalla parentalità. Penso anche ad Aspesi quando la rifiutò dicendo che è come dover fare altro se non si fanno figli: e invece no, i figli si possono non fare e basta».
Ridefiniamo il concetto di libertà.
«Libertà è responsabilità. A molti non piace questa definizione. A me pare una parola bellissima».
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Figli e «alternative»
Il femminismo sta ancora definendosi in sottrazione rispetto a qualcosa che si vuole rifiutare
Perché ci sono sempre più child less o child free?
«Chi riesce a tenere insieme carriera e figli in una società che ti vuole performante, solitamente ce la fa grazie a una situazione di privilegio. Il mito del “puoi essere tutto quel che desideri” anche da mamma è una bugia che fa male alle madri. Per una persona che voglia dedicare la propria vita a una causa o a un progetto, l’essere senza figli può essere indubbiamente più facile. Lo aveva detto la stessa Rita Levi Montalcini, no?».
I social sono un buon campo di battaglia e informazione?
«Alle battaglie i social sono utilissimi, pensiamo alla Primavera Araba e anche alla Palestina. Il femminismo oggi spesso viene identificato con il femminismo digitale ed è un errore gravissimo. Beneficia dei social, ma è fuori che il mutualismo femminista salva la vita alle persone. I social non sono informazione, ma spunti di divulgazione e informazione, da andare ad approfondire altrove, sul giornalismo — quello che non scimmiotta i social — e nei libri, per esempio».