«Fela Kuti ci può liberare dalle scorie del colonialismo»
Daniele Vicari ha scelto Torino per il debutto del suo nuovo film «Qui per me è iniziato tutto, con Guido Chiesa e il doc sulla Fiat»
Inizia da Torino il viaggio di Fela. Il mio dio vivente, il nuovo film di Daniele Vicari, che in concomitanza con l’uscita in sala sarà presentato dal regista stasera alle 20.15 al Cinema Fratelli Marx.
L’opera racconta il rapporto tra il musicista nigeriano Fela Kuti e il videomaker Michele Avantario, che per 10 anni cercò di girare un film su di lui. Come è incappato in questa storia?
«Incontrando in modo casuale Renata Di Leone, la moglie di Michele, alla Festa del Cinema di Roma nel 2019. Fela era morto nel 1997, Michele nel 2003 e lei ha conservato per anni i materiali del marito, con l’idea di farne un film. Guardando le immagini mi sono reso conto che la storia incredibile era proprio quella del videomaker: la purezza con cui si era immerso nella realtà africana e il modo in cui veniva accolto a Kalakuta, la comune dell’artista in Nigeria».
Un punto di vista unico, ravvicinato, persino intimo. Ci sono immagini che Avantario girò — unico bianco invitato — a una festa di compleanno di Fela Kuti.
«Gli sguardi dei partecipanti a quella festa, la simpatia che rivolgono a Michele, per me valgono da soli il film. A Lagos si organizzava un festival importante di world music, non era raro che grandi musicisti andassero a trovare Fela, ma nessun occidentale ha mai ricevuto i privilegi di Michele».
Che tipo di rapporto si era creato?
«Sproporzionatissimo: da un lato c’era uno dei più grandi artisti del mondo, dall’altro un ragazzo che provava a fare
cinema. Gli psicanalisti parlerebbero di Fela come “figura guida”. Era anche un “babalawo”, un sacerdote con radici nelle tradizioni yoruba. Michele ci mostra la rilevanza e la ricchezza straordinaria della cultura africana, aiutandoci a demolire le scorie residue del colonialismo. Ci fa capire che quella cultura non è inferiore alla nostra».
Non c’è il rischio che alcune immagini — l’uccisione degli animali, le 27 mogli di Fela, l’onnipresenza della marijuana — rafforzino invece alcuni pregiudizi?
«Li rafforzano se si ha un punto di vista razzista, con una visione incapace di elaborare la complessità del mondo. La scena in cui viene tagliata la testa al toro e cucinata subito la carne per me è famigliare: non l’ho vista in Africa, ma da bambino nelle campa
gne dove sono cresciuto».
Un altro elemento che emerge è il legame tra musica e lotta politica. Che fine ha fatto oggi questa connessione, che negli anni Settanta era ben presente anche in Italia?
«Da quegli anni ci separa un abisso in fatto di vitalità. Oggi viviamo di passioni tristi, chiusi in scatole di cartone, guardando il mondo dal buco della serratura di un computer. Questo incide sulla musica e sulla politica. Qualche sera fa a un’anteprima a Roma c’erano molti ragazzi, richiamati dalla musica e dal ritorno dell’afrobeat, il genere di Fela Kuti. A fine proiezione si percepiva il loro stupore. Mi hanno detto che non si aspettavano di scoprire un simile modo di vivere. Fela era uno di quei musicisti per cui era normale chiedersi “chi sono, cosa faccio
qui, perché succede questo”. Nel mondo contemporaneo prevalgono invece automatismi e una forma di cinismo».
Ha scelto di essere a Torino il giorno in cui esce il film. C’è un legame particolare con la città?
«Ho praticamente iniziato a fare cinema a Torino, negli anni Novanta, con Guido Chiesa e il film Non mi basta mai .Ho tante amicizie, come quella con Enrico Verra che ha organizzato questa proiezione. Ma in generale Torino è una delle nostre città del cinema, di quelle che di fronte ai film ha sempre una maggiore consapevolezza, anche grazie all’ottimo lavoro del Tff. Mi aspetto che stasera gli spettatori torinesi mi aiutino a capire meglio ciò che ho fatto».
Racconto il rapporto tra il musicista nigeriano Fela Kuti e il videomaker Michele Avantario, che per 10 anni cercò di girare un film su di lui