«Porto la vita nel rito della Sagra della Primavera»
Un’intera retrospettiva, La primavera del Sacre è stata dedicata dal critico Elisa Guzzo Vaccarino al Sacre du printemps di Igor Stravinskij — che vide la luce nel 1913 insieme con le coreografie «impensabili» fino ad allora di Vaclav Nijinskij — e agli innumerevoli rifacimenti coreutici che si sono susseguiti in questi centodieci anni. Una vera pietra miliare nella storia della danza alla quale si accosta anche la coreografa pugliese Roberta Ferrara che ne porta una sua versione oggi e domani in prima nazionale al Teatro Astra per Palcoscenico Danza: La sagra della primavera. Il rituale del ritorno. Al suo fianco come drama
turg Pompea Santoro, in scena dieci giovani dell’eko Dance Project che rispettano la caratteristica della compagnia della Ferrara, Equilibrio dinamico, di coinvolgere danzatori under 35.
Con quale desiderio si è accostata al Sacre?
«Mi sono sempre interessata al rito, a partire dalla mia tesi di laurea sulla taranta come rito terapeutico. Il rito ti permette di non scappare dalle tue origini e inoltre ti richiede di fare attenzione al gesto e il gesto prevede tempo e cura».
Perché il «ritorno»?
«Il rituale è qualcosa che torna a se stesso e alle radici. Nella mia Sagra inoltre non prevedo la morte come momento definitivo, ma come l’inizio di una vita diversa, come ciclo di rinascita. Nel mio balletto non c’è una vergine sacrificata, ma è la comunità che si sacrifica per dei valori e la morte è vista come un nuovo, ciclico inizio. Alla fine dello spettacolo i danzatori non cadono a terra, ma il fondale si alza e vanno oltre».
Cosa c’è di Nijinskij e di Stravinskij nella sua coreografia?
«Mantengo un lavoro geometrico sul cerchio che è anche qualcosa di inclusivo e di ciclico. La morte è invece inizio di una vita diversa, un passaggio in un ciclo di rinascita. Non c’è il sacrificio di un’eletta, ma c’è una comunità utopica che si sacrifica per dei principi comu
ni. In scena vedrete un timer che rappresenta le scadenze, il tempo che scorre. E poi ci sono degli inserti musicali di Benedetto Boccuzzi, Electronic Augmentations to Stravinsky’s Rite of Spring, che segnano dei momenti dove sul tempo cronologico prevale il tempo psicologico. Sono momenti come raggelati, sottolineati anche dalle luci di un altro under 35, Francesco Ricco. Qui non sono più i corpi dei danzatori a prendere forma, ma è la loro essenza, la loro energia nello spazio. Qui il timer si blocca».
Più di cento anni di reinterpretazioni, da Pina Bausch, a Béjart a Marie Chouinard. Come si è accostata a tutta la storia che l’ha preceduta?
«Mi sono accostata con studio, impegno, rigore. Credo che produrre la tua idea da un altro punto di vista sia interessante. Diventa un concetto democratico potersi accostare a un grande capolavoro portando avanti la propria proposta. E poi c’è stata una sfida mia personale verso la musica di Stravinskij e il suo genio. Sono stata anche aiutata: da Boccuzzi che è anche docente al conservatorio e nella coreografia dalla grande esperienza di Pompea Santoro».
A quali coreografi è più legata?
«Apprezzo molto Marcos Morau della compagnia spagnola La Veronal, Crystal Pite e Chartier-carrizo di Peeping Tom. Con loro non ci sono solo corpo e danza, ma uno sguardo cinematografico allo spettacolo».