«Il teatro mi ha deluso sotto il profilo umano Ai miei allievi ho insegnato a cucire il “punto festone”»
Ferdi Giardini, designer: «Sono sempre stato critico con gli Agnelli, ostruivano possibilità»
Ferdi Giardini fa l’artista da tutta la vita. Convinto che sia più corretto e soprattutto più spogliato dall’ego e dalle identificazioni dire «fare» l’artista, piuttosto che «essere» artista. Propugna un’arte che faccia star bene gli altri e risponda ai bisogni, un po’ come risponde a bisogni il design, di cui è ugualmente cultore. Non esistono per lui delimitati confini, che si tratti di creare sculture luminose con il plexiglass e i led, lampadari specialissimi o occhiali quadrupli con due paia di lenti, o profumi-odori, o comode scarpe di cuoio, egli crea considerando che le mani siano «un arto pensante». Creatore di forme è l’unica definizione che si dà.
Andiamo per ordine. Lei ha iniziato con il liceo artistico e l’accademia Albertina, scegliendo di specializzarsi in scenografia perché il disegno le veniva troppo facile…
«Infatti. Per questo, imparando anche a recitare, ho poi iniziato con il teatro. Poi però dal lato umano mi ha deluso e così ho scelto di lavorare con le mani che porta anche a uno stato quasi mecampo ditativo. Ho iniziato anche a tenere laboratori per i ragazzi al Castello di Rivoli, così ho sviluppato una didattica che ho poi portato anche al Politecnico quando mi è successivamente stato richiesto di insegnare materie di design».
A chi e a che cosa deve principalmente al fatto di lavorare come artista?
«Agli incontri. Al collezionista Roberto Panizza che per primo acquistò le mie opere e mi aiutò. Al grande Piero Gilardi di cui fui assistente per lungo tempo che mi insegnò tutti i segreti e i trucchi per lavorare la gommapiuma. A Luigi Nervo, mio professore di lavorazione del legno che mi ha fatto capire che le mani arrivano prima del cervello e che la mia abilità nel disegnare potevo ritrovarla anche nell’agire sulla materia».
Altri maestri?
«Li ho trovati in tanti campi. Nei libri: talvolta ti rendi conto che quelle che stai leggendo sono cose che avresti voluto dire ed esprimere tu. Mi succede con Alejandro Jodorowsky di cui ho letto tutto, ascoltato le conferenze, assistito ai film. Nel cinema mi hanno segnato Tarkovskij e Wenders, nell’architettura Calatrava che trasformava le sue ispirazioni da artista in controventature e tensioni che tenevano su una struttura, nella moda la decostruzione degli abiti di Comme des garçon, gli accostamenti di Kenzo, lo stile di Armani, le sperimentazioni di Carmelo Bene nel teatro, Lindsay Kemp e i Momix nella danza, gli Stomp nella musica».
E lei cosa insegna ai suoi allievi, a parte le tecniche?
«L’ego porta al possesso, alla violenza, a falsi rapporti interpersonali, a false società. Mi piace anche meditare sulle opere, come ho fatto nel progetto Arte e Benessere di Marcella Pralormo».
Artista? Designer?
«Ai miei allievi ho insegnato a cucire il “punto festone”, quello che serve per riparare le reti, e loro si sono creati oggetti incredibili. Tutto passa attraverso il fare. Quando mi dissero che dovevo decidermi fra fare il designer e l’artista, risposi che era una distinzione che non aveva senso».
Nella sua produzione prevede una serialità?
«Talvolta sì. Se la prevedo, allora mi rivolgo alle aziende».
Che rapporto ha con la sua città?
«Giardini è un cognome marchigiano. Da bambino il mio papà si trasferì a Fiume con la famiglia, mentre mia mamma era di Zara. Si conobbero dopo la guerra in un profughi giuliani e poi si trasferirono a Torino per lavorare alla Michelin. Ancora adesso con mia sorella parliamo dialetto zaratino. Pur essendo nato qui, non mi sono mai sentito torinese, ma più “orientale”. Sono sempre stato più che critico con gli Agnelli che ostruivano tante altre possibilità per la città, quando invece Gualino fu un grande mecenate».
Però ha anche trovato dei lati positivi.
«Ho capito che in tutti i posti dove si vivono grandi contraddizioni, nascono tante realtà interessanti. Torino è una città creativa sotto ogni aspetto: artistico, teatrale, televisivo, musicale. La moda, i filati… C’è un fervore creativo che nasce dalla difficoltà. Per migliorare».
E qui è stato beneaccetto.
«Devo dire di sì».
Dei tanti con i quali lavora, quali sono i suoi materiali preferiti? La luce?
«Sì la luce mi cattura tantissimo, è autenticità, è trasparenza. È quanto di più vicino all’essere umano, ci si può nutrire di luce. In questo momento finalmente lavoro anche per casa mia: mi sto costruendo un nuovo lampadario di plexiglass»
Ha appena terminato una mostra di grandi ali luminose, a quale altro lavoro ha messo mano in questo periodo?
«Nell’ambito del design avevo lavorato ad esempio con Luceplan per cui ho anche inventato il ventilatore che è venduto internazionalmente. Spesso lavoro con architetti per i quali creo luci ad hoc. La mia anima è doppia, artistica e ingegneristica. Per il Politecnico ho insegnato ecodesign e modellistica».
Quali sono gli insegnamenti maggiori che passa ai suoi studenti?
«Intanto di essere integerrimi, di avere una spina dorsale, di essere sempre onesti con sé e con gli altri, qualunque sia il costo e in qualunque contesto. Poi di essere curiosi per migliorare sempre se stessi, non per indagare sugli altri. E poi bisogna fare. Fare».
Qual è il ruolo dell’artista?
«L’obbligo dell’artista è quello di far star bene gli altri e di fare riflettere. Le opere d’arte servono a questo: a farti crescere e a stimolarti, devono parlarti. Questo è lo scopo, non avere mercato, magari con opere completamente “mute”. Ho recuperato da Franz Paludetto, il mio primo gallerista, i miei primi lavori scultorei degli anni ’80 e ho capito che ancora parlano, anche se nel frattempo io ho cambiato moltissimi registri per non ripetermi».
Crea indipendentemente dal fatto di commercializzare o meno le sue creazioni?
«Tutti i grandi artisti hanno creato indipendentemente dalla commercializzazione. Anche i profumi, li ho creati per me, poi Piera Giacobino mi aveva convinto a venderli. Le idee, le intuizioni sono nell’aria e noi siamo solo dei canali, delle grondaie per irrigare gli altri, non siamo depositari di nulla. Questo cerco di far passare ai miei figli e ai miei studenti. “Quello che dai, te lo dai e quello che non dai, te lo togli” dice Jodorowsky».
Prossimo progetto?
«Costruisco sculture luminose con il plexiglass e l’alluminio per la prossima mostra in autunno dal mio gallerista Riccardo Costantini. Senza frenesia, senza bramosia. Vivo da bohémien, e un po’ da Robin Hood».