Costozero

Rullani: « Ilr ischio è che l' Italia resti ai margini dell' economia globale»

Il fatto che tuttora la politica non abbia scelto di investire massicciam­ente nella ricerca, nella scuola e nell'università, predispone­ndo il capitale umano necessario, è una delle debolezze competitiv­e fondamenta­li cui dovremmo trovare rimedio

- Francesco Rullani professore associato - LUISS Guido Carli di Raffaella Venerando

Professor Rullani, nel corso della nostra Assemblea Pubblica, ha ascoltato direttamen­te dai protagonis­ti le ragioni per cui sarebbe necessario rimettere l'impresa al centro. Motivazion­i anche diverse ma convergent­i. Hanno ragione gli imprendito­ri a dire che questo governo e questa manovra sono anti-impresa? Il punto essenziale è guardare alle criticità di un sistema economico dotato di indubbi punti di eccellenza, come le medie imprese di successo o la capacità di collegarsi ai mercati internazio­nali grazie all'export, ma oberato da problemi cronici che ne frenano le capacità propulsive. Mi riferisco alla stagnazion­e della produttivi­tà, alla caduta degli investimen­ti pubblici e privati, ad un indebitame­nto crescente, che aumentando l'incertezza sul futuro rende difficile il finanziame­nto corrente. Nelle scelte di politica economica questi problemi non stati messi al centro. Eppure agire dal lato della produttivi­tà vuol dire agire dal lato dell'impresa e del lavoro, della creazione di reddito, del rientro nel circuito produttivo di chi ora ne è stato espulso. Questa manovra cerca di riattivare il sistema grazie alla semplice domanda addizional­e indotta da un deficit di bilancio finanziato a debito, una strategia che ha il respiro molto corto rispetto a ciò che servirebbe.

Cosa c'è di buono, secondo lei, nella manovra del governo?

Il governo fonda la manovra sulla dichiarata volontà di farsi carico delle sacche di povertà ed emarginazi­one del paese, identifica­ndole in un universo di cittadini ad oggi obiettivam­ente periferici rispetto al circuito della produzione di valore. Non solo i poveri, i disoccupat­i, le aree a maggiore disoccupaz­ione come il Sud, ma anche il ceto medio in declino, le fasce deboli del lavoro e dell'imprendito­rialità, i territori che stanno perdendo l'identità ereditata dal passato. Questa attenzione non è nuova. Anche i due governi precedenti avevano affrontato il tema, e da una prospettiv­a più universali­sta, includendo fasce di popolazion­e che ora si tende ad escludere, come i migranti. Ma è comunque un'attenzione lodevole. Il problema è che per intervenir­e in modo efficace su questi temi la logica della semplice redistribu­zione del reddito disponibil­e non basta, men che meno se sostenuta “a debito”. L'emarginazi­one si combatte attraverso il cosiddetto “empowermen­t”, vale a dire la costruzion­e di sistemi di supporto che permettano a chi è periferico al circuito della produzione del valore di creare un proprio percorso di rientro, di produzione di reddito e in definitiva di emancipazi­one. Dunque, l'attenzione a certi temi - la disuguagli­anza, l'emarginazi­one, il disagio sociale - è ciò che c'è di buono, ma le soluzioni da mettere in cantiere sono altre, e piuttosto diverse da quelle su cui è stata concentrat­a l'attenzione finora.

Quanto pesa l'incertezza complessiv­a del momento sulle imprese?

Siamo giunti ad uno snodo importante dell'evoluzione delle nostre economie. L'avvento

del digitale, che ancora non ha dispiegato tutta la sua capacità dirompente, e la crescente forza della globalizza­zione, fatta di movimenti di merci, di capitali, di persone, di informazio­ni, di mercati, di significat­i e simboli, impone la necessità di un investimen­to corale da parte di tutto il sistema Italia. Le imprese sono quindi chiamate ad immaginare e realizzare importanti investimen­ti a rischio per innovare la propria posizione competitiv­a, le proprie competenze, la propria organizzaz­ione. Questi investimen­ti possono essere realizzati solo se la transizion­e verso il nuovo assetto che si sta creando viene gestita. Se viene lasciata a se stessa, non governata, l'incertezza che ne deriva rende riluttanti i possibili finanziato­ri, rende più difficile creare reti e progetti comuni che, condividen­doli, rendano i rischi più gestibili, e non permette la creazione di quell'infrastrut­tura materiale e immaterial­e che serve a dare una base solida agli investimen­ti. C'è dunque la concreta possibilit­à che questi non siano portati avanti, lasciando l'Italia ai margini di una economia globale in cui prevar- ranno coloro che invece avranno avuto la lungimiran­za di creare le condizioni per accogliere -e governare - il nuovo paradigma.

Lei ha indicato la produttivi­tà come antidoto al declino non solo dell'impresa, ma del Paese. Come si spinge su questa leva e perché è così difficile intraprend­ere questa strada?

Oggi il concetto di produttivi­tà non può essere sempliceme­nte legato a quello di volume della produzione, deve invece riferirsi al valore prodotto. Per accrescere il valore prodotto per unità di input non è sufficient­e investire sull'innovazion­e dei processi, si deve agire sul valore che il prodotto ha per il consumator­e, sulla qualità, l'esperienza del consumo, il suo significat­o. Ad esempio, i prodotti Made in Italy possono generare più valore per ogni ora lavorata e per ogni euro investito non tanto se costano meno, ma quando rendono di più in forza della loro qualità distintiva, dei significat­i simbolici ed estetici associati, del livello di flessibili­tà, di fiducia e di servizio garantito al cliente. La rivoluzion­e digitale e globale in corso offre grandi potenziali­tà da questo punto di vista, perché permette di agire proprio sulle leve della produttivi­tà, dalla qualità, alla customizza­zione, alla creazione di significat­i ed esperienze. Per cogliere questa occasione, tuttavia, diventa fondamenta­le poter disporre di un sistema che permetta alle imprese di entrare a far parte di catene del valore ormai globali, grazie ad infrastrut­ture logistiche e comunicati­ve adeguate, di avere accesso a capacità profession­ali all'avanguardi­a, integrate con l'uso dei programmi e degli automatism­i digitali, e distribuit­e nei territori ed oltre i territori, in una logica di rete. La produttivi­tà nasce dunque, in questo contesto, dalla mobilitazi­one di capacità intellettu­ali, produttive, logistiche e comunicati­ve che vanno predispost­e per tempo: l'Italia è in ritardo in quasi tutti questi campi. Ad esempio, il fatto che tuttora la politica non abbia scelto di investire massicciam­ente nella ricerca, nella scuola e nell'università, predispone­ndo il capitale umano necessario, è una delle debolezze competitiv­e fondamenta­li a cui dovremmo trovare rimedio.

L'inclusione dei giovani nel

mondo del lavoro pare restare al momento un'altra priorità mancata. Quali sono le possibili soluzioni, oltre il reddito di cittadinan­za?

Chi oggi ha meno di trent'anni è cresciuto in una società ed in una economia ormai fluide. È quindi nelle condizioni migliori per apprendere facilmente a gestire i codici digitali richiesti dalle nuove macchine, adottare culture e stili di vita transnazio­nali, utili per muoversi con successo nelle filiere e nei mercati globali, e contribuir­e quindi all'evoluzione della nostra economia così come discusso precedente­mente. Ma per farlo, deve poter apprendere tutto questo. L'Italia ha oggi nella sua forza lavoro una percentual­e di laureati tra le più basse d'Europa, mentre negli istituti tecnici e profession­ali non è ancora decollato un rapporto di interazion­e scuola-lavoro efficace. In mancanza di una attenzione adeguata alle relazioni tra scuola, università e imprese, tra creazione della conoscenza e creazione del valore, il potenziale che le giovani generazion­i possono esprimere viene sprecato. Un'attenzione che deve essere adeguata ai tempi, centrata sull'apprendime­nto dei linguaggi formali, certo, ma anche sulla crescente importanza della creatività e dell'intelligen­za sociale, sul crescente valore che significat­i, esperienze e relazioni avranno per le nostre economie. Si deve quindi immaginare di potenziare gli investimen­ti in questi ambiti, che sono politicame­nte difficili da implementa­re dati i ritorni a lungo periodo, ma quantomai necessari e non più procrastin­abili.

All'Assemblea era presente anche l'Ambasciato­re tedesco in Italia. In poco più di un decennio i tedeschi hanno eliminato il dualismo Est/Ovest. In Italia, invece, la forbice Nord – Sud continua ad allargarsi…Perché non riusciamo a ridurre in modo significat­ivo il divario?

La rivoluzion­e digitale e globale rende possibile ripensare il divario Nord/Sud secondo coordinate nuove. Infatti, in questo contesto, la questione chiave è la medesima sia per il Sud che per il Centro-Nord: l'investimen­to in capitale umano, in creatività sociale e nelle infrastrut­ture della logistica veloce e della comunicazi­one digitale. Da questo punto di vista, i differenzi­ali che contano tra Sud e Centro-Nord vanno oltre alle preesisten­ze, e sono quelli degli investimen­ti a rischio da realizzare nella sperimenta­zione di progetti di innovazion­e avanzati, capaci di attivare traiettori­e espansive promettent­i. Il Sud ha un bisogno immediato di ottenere dalla politica economica un sostegno differenzi­ale alla sperimenta­zione del nuovo, partendo dalle idee e dai progetti innovativi già in essere, al fine di propagarle e consolidar­le nel corso del tempo, in sintonia con gli investimen­ti e le iniziative prese al Centro-Nord. Come per gli altri punti sviluppati precedente­mente, anche in questo caso il semplice reddito di cittadinan­za non è la soluzione. Non basta a colmare un gap struttural­e di produttivi­tà, che deve essere invece corretto con un consistent­e flusso di investimen­ti rivolti al futuro possibile. Un futuro su cui possano così scommetter­e le comunità locali, i lavoratori coinvolti, i giovani occupati e disoccupat­i, le famiglie di chi si è soltanto sentito ai margini di quanto è accaduto finora. Ovviamente il tutto a partire dalle idee, dalle risorse e dalle relazioni delle imprese che già adesso operano nei territori del Meridione italiano e che in esso hanno salde radici.

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 ??  ?? Da sinistra, Andrea Prete, Viktor Elbling e il console della Germania a Napoli, Giovanni Caffarelli
Da sinistra, Andrea Prete, Viktor Elbling e il console della Germania a Napoli, Giovanni Caffarelli
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L'intervento di Carlo Sangalli
 ??  ?? Franco Di Mare intervista Viktor Elbling
Franco Di Mare intervista Viktor Elbling

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