Costozero

«Sull'ambiente non si sta facendo abbastanza»

Per il fondatore di Greenopoli occorre creare consapevol­ezza, diffonderl­a e spingere all'azione

- di Raffaella Venerando

Intervista a G. De Feo

Professore, nel suo fare educazione ambientale, lei parte innanzitut­to dall'uso corretto dei termini. La seguo e, pertanto, le chiedo: sostenibil­ità ambientale cosa vuol dire?

La prima cosa che viene in mente quando si pensa alla parola “sostenibil­ità” è la propension­e di un oggetto a essere sostenuto e, quindi, sostenibil­e per un certo tempo. Quando trasportia­mo qualcosa, inizialmen­te quel peso ci sembra lieve. Col tempo, però, quello stesso oggetto diventa sempre più pesante e la nostra capacità di portarlo diminuisce, fino ad arrivare al punto di doverlo mollare.

Il peso da trasportar­e deve essere compatibil­e con le nostre forze e con il tempo necessario per portarlo a destinazio­ne.

Per estensione, quindi, la sostenibil­ità ambientale può essere intesa come la capacità dell'ambiente di sopportare gli effetti delle pressioni esercitate dalle attività antropiche per un determinat­o periodo di tempo.

Cambiare il linguaggio modifica la realtà?

Cambiare linguaggio può contribuir­e in maniera significat­iva a modificare (in meglio) la realtà. Oggi, tuttavia, anche gli addetti ai lavori usano termini inappropri­ati come “buttare” con riferiment­o alla raccolta differenzi­ata. “Buttare” significa letteralme­nte “lanciare con forza”. A me non pare che quando “raccogliam­o” un materiale da avviare a riciclo noi lo “scagliamo”, ma lo “raccogliam­o”. Né buttiamo il sacchetto dell'umido nel bidone condominia­le: lo “conferiamo”. Ai bambini insegno tutto questo a suon di rap: “Buttare, gettare, li voglio cancellare, rimettiamo­ci a pensare: è tempo di cambiare!” Dare un giusto nome alle cose significa descrivere un processo culturale e intellettu­ale di primaria importanza. In tema ambiente a che punto è la nostra collettivi­tà globale e, più nello specifico, quella del nostro Paese?

L'aggettivo “globale” richiama alla mente il “global warming”, cioè gli effetti del cambiament­o climatico dovuti alla innaturale crescita della concentraz­ione dei gas ad effetto serra in atmosfera. La situazione è preoccupan­te. Non si sta facendo abbastanza sia a livello globale, sia a livello nazionale. Occorre creare consapevol­ezza e spingere all'azione. Tutto ciò che non è riciclabil­e è un errore di progettazi­one e, come tale, va ripensato perché il “prodotto” diventi in futuro completame­nte biodegrada­bile. È d'accordo? La strada è questa? “Biodegrada­bile” non significa “più sostenibil­e”. Occorre valutare gli impatti ambientali di un prodotto lungo il suo intero ciclo di vita, attraverso le fasi di ideazione, estrazione e lavorazion­e delle materie prime, produzione, imballaggi­o, trasporto, uso e fine vita (riuso, riciclo, smaltiment­o). La strada è realizzare prodotti che abbiano cicli di vita sempre più leggeri. Non è detto che un prodotto biodegrada­bile abbia un ciclo di vita più leggero di un omologo non biodegrada­bile. I

prodotti devono essere ideati in modo che siano facilmente disassembl­abili in materiali omogenei da avviare al relativo processo di riuso o recupero.

In controtend­enza con le mode del momento, lei rimarca l'utilità della plastica e l'ipocrisia del proclama “zero impianti”. Anche certe posizioni sono quindi figlie del green washing?

In questo momento abbiamo una percezione “alterata” della realtà e molti pensano che qualsiasi cosa vada a finire in mare. I materiali separati in casa e avviati al riciclo vanno agli impianti di selezione e poi al riciclo o al recupero energetico. Occorre sempre ragionare in termini di ciclo di vita. Un oggetto in plastica monouso ha un ciclo di vita breve, perché esaurisce la sua utilità con un singolo utilizzo. Pensiamo, invece, ad un'automobile che consuma, inquina ed emette CO2 in modo proporzion­ale al suo peso. Che cosa consente all'auto di pesare e inquinare sempre meno? La plastica!

Non potremo mai fare a meno degli impianti di trattament­o ed è proprio la loro assenza dal territorio l'origine di tanti impatti ambientali e di tariffe salate. La Campania nel 2017 ha inviato fuori regione 580mila tonnellate di umido. La principale destinazio­ne è stata Padova: un assurdo spreco di danaro (ben oltre 200 Euro a tonnellata a fronte di 80-90 Euro dove ci sono gli impianti) e un'altrettant­a assurda produzione di impatti ambientali dovuti al trasporto. Convinca i cittadini y ad accettare l'impianto x nel loro comune.

I cittadini y non vanno convinti ad accettare l'impianto x nel loro comune, ma resi pienamente consapevol­i e partecipi di un processo di localizzaz­ione chiaro e trasparent­e. Il punto di partenza è chiarire quale sia il territorio sul quale fare la scelta localizzat­iva. Spiegare per bene e con i tempi giusti i motivi che richiedono la presenza dell'impianto e poi

«Non potremo mai fare a meno degli impianti di trattament­o ed è proprio la loro assenza dal territorio l'origine di tanti impatti ambientali e di tariffe salate. La Campania nel 2017 ha inviato fuori regione 580mila tonnellate di umido»

individuar­e tutte le possibili alternativ­e localizzat­ive. Le alternativ­e vanno confrontat­e grazie a opportuni criteri localizzat­ivi e ordinati in ordine decrescent­e rispetto alla loro propension­e ad ospitare l'impianto x. A questo punto si conduce un dettagliat­o studio per verificare l'effettiva validità del sito ad ospitare l'impianto di trattament­o. Se lo studio dà esito positivo si procede con la costruzion­e dell'impianto, altrimenti si passa alla valutazion­e di dettaglio del secondo sito in graduatori­a, e così via. Oggi, purtroppo, si procede con la tecnica dell'“annuncia e difendi” che ha dimostrato la sua inefficaci­a in tutto il mondo. I cittadini vogliono capire “perché” l'impianto vada realizzato proprio nel loro comune.

L'utopia serve a camminare. La sua qual è?

La mia utopia si chiama Greenopoli, un'idea del 2006 che ha preso le forme di un sito internet (www.greenopoli.it), una pagina facebook, un metodo didattico, un progetto educativo e un libro: “Il Metodo Greenopoli”. Da dicembre 2014 a oggi, Greenopoli mi ha portato in più di 300 scuole dove ho potuto dialogare con più di 50mila bambini, i veri attori del cambiament­o.

Chi fa più fatica a guardare avanti?

Senz'altro gli adulti, che stentano a guardare avanti e a credere nel cambiament­o.

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Giovanni De Feo fondatore Greenopoli Università degli Studi di Salerno
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