Giro del mondo orwelliano
Scaduti i diritti, gli editori ristampano le sue opere. Un’occasione per rievocare il brillante romanziere e giornalista ma anche il personaggio contraddittorio
«Tutti gli scrittori sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». È quel che si dovrebbe dire oggi davanti alla quantità di volumi a firma “George Orwell” che stanno arrivando nelle redazioni dei giornali e nelle librerie. Odorose d’inchiostro e qualcuna anche di naftalina, sono traduzioni con prefazioni postfazioni e note - vecchie e nuove - che gli editori si sono affrettati a stampare, come succede spesso (cioè quando ne vale la pena) nel momento in cui scattano i 70 anni dalla morte di un autore e scadono i diritti a favore degli eredi.
Stavolta l’occasione è ghiotta perché, se a fare da richiamo «basta la parola», come diceva una vecchia pubblicità televisiva; “Orwell” è uno di quei nomi che ricorrono nei cruciverba (e non tra i più difficili). E l’aggettivo “orwelliano”, al pari di altri presi a prestito dalla letteratura - come “kafkiano”, “rocambolesco”, “machiavellico” o “gattopardesco” -, non identifica soltanto la persona o il personaggio da cui deriva, ma è un marchio di fabbrica che sintetizza un’atmosfera o un aspetto concreto e facilmente riconoscibile della realtà.
Erede dello Swift dei Viaggi di Gulliver e della Favola della botte, Orwell è uno scrittore sorvegliatissimo che, in un’epoca di ghirigori e ristrutturazioni moderniste, scrive in una prosa - soprattutto saggistica - misurata e tagliente, diretta e discorsiva, con la quale si spinge a dire sempre tutto, e fino in fondo. È stato anche un brillante giornalista investigativo per «The Observer»; e come romanziere, a metà strada tra il profeta di sventura e il pubblico delatore, è passato alla storia come lo scrittore che ha abbattuto il mito del comunismo.
Come molti figli intellettuali delle classi alte o medio alte inglesi, gravati da qualche senso di colpa, aveva finito ben presto per orientarsi politicamente a sinistra, ma non fu mai un progressista. Sedicente anarchico conservatore («Tory anarchist») e antimperialista, è stato sempre un buon patriota. Dichiaratamente ateo, si faceva vedere di tanto in tanto in chiesa la Chiesa anglicana, of course - per ricordare, ovviamente a se stesso, che il passato non si cancella.
Aveva anche in corpo qualche sedicesimo di sangue nobile, ma apparteneva a una famiglia non più facoltosa, e la sua collocazione ideologica non fu mai veramente nell’ambito dell’internazionalismo socialista bensì nella cornice rurale e provinciale - e un po’ fuori dal tempo - dell’Inghilterra del XVIII secolo, estranea ai traffici delle grandi città e lontana dalla Corte e dai centri di potere.
Era inoltre, almeno secondo certi commentatori maliziosi, un uomo per molti versi ambiguo e contraddittorio - uno snob, come si dice nel linguaggio corrente -, ma onesto e di buon cuore; e fatalmente attratto dagli emarginati e dai vinti, dai poveri e dai poveracci, dai vagabondi e dai mendicanti, prostitute e malviventi inclusi. Insomma le vittime del destino cinico e baro, e della storia rapace e matrigna.
Ma l’esperienza diretta, insieme a quello speciale fiuto che hanno gli artisti, gli aveva a un certo punto aperto gli occhi: prima in Birmania, dove aveva servito la Corona britannica come agente della polizia coloniale, e poi in Spagna nel corso della Guerra civile. Aveva intuito - ex pede Herculem - di che pasta sono fatti gli uomini (e le donne) in questo basso mondo; e, soprattutto, proiettando in un disegno futuro le motivazioni e le spinte dei vari personaggi armati e in divisa che aveva avuto attorno a sé, aveva capito che i paladini degli oppressi, una volta cacciato l’oppressore, si sarebbero rivelati i peggiori tiranni.
Esaltati dalle proprie supposte virtù, avrebbero instaurato un regime totalitario con un potere fine a se stesso, da affidare allo Stato. Anzi, a un partito unico dentro la Stato. Un’astrazione, insomma, priva di fattezze umane, che fosse una sorta di equivalente del Padreterno sulla Terra, e con una autorità assoluta non solo sugli atti ma anche sui pensieri di ciascun cittadino, che sarebbe stato in tal modo trattato alla stregua di un minorenne, se non addirittura di un minus habens.
Con La fattoria degli animali (1945), Orwell consegnò al mondo una delle frasi più illuminanti e abrasive della letteratura del ’900: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E con il successivo Millenovecentoottantaquattro (1947), inventò la figura del Grande Fratello. Un passepartout nelle mani di intellettuali e perdigiorno al bar, più qualche malato affetto da mania di persecuzione, che senza magari aver mai letto una riga dei suoi libri poterono servirsene a briglia sciolta in qualsiasi tipo di chiacchiera. Politica e non.
Ma Orwell è stato davvero un profeta: non un veggente che legge il futuro, ma un portavoce di verità che toccano le radici di ciò che è umano e che ha valore sul piano dell’eterno.
In uno scritto poco conosciuto che si intitola Second Thoughts on James Burnham (1946) e a commento di un suo libro La rivoluzione manageriale (tradotto da Boringhieri nel 1990) avvertì con fermezza che la tecnologia al servizio dell’ideologia dà luogo a una miscela tanto efficiente quanto soffocante e disumana. E che il pericolo totalitario non esiste solo nelle nazioni dove domina lo Stato-partito, ma anche nelle democrazie, quando prevalgono tendenze stataliste e socialiste: «Se ho scelto - scriveva - di collocare la storia di Millenovecentoottantaquattro in Gran Bretagna, è solo per ricordare che i popoli di lingua inglese non sono migliori degli altri e che se non è combattuto il totalitarismo può trionfare dovunque».
Anche nell’America di oggi, con i social media che zittiscono un presidente in carica; e nel mondo intero, provvisto di tablet con relative app globalizzanti e in attesa dell’adozione di un microchip da inserire nel nostro collo sotto la base cranica e in grado di captare i nostri pensieri e addirittura trascriverli - come sostiene quella malalingua del mio vicino di casa - anche negli ideogrammi di qualche lingua asiatica.