Il Sole 24 Ore - Domenica

Giro del mondo orwelliano

Scaduti i diritti, gli editori ristampano le sue opere. Un’occasione per rievocare il brillante romanziere e giornalist­a ma anche il personaggi­o contraddit­torio

- Luigi Sampietro

«Tutti gli scrittori sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». È quel che si dovrebbe dire oggi davanti alla quantità di volumi a firma “George Orwell” che stanno arrivando nelle redazioni dei giornali e nelle librerie. Odorose d’inchiostro e qualcuna anche di naftalina, sono traduzioni con prefazioni postfazion­i e note - vecchie e nuove - che gli editori si sono affrettati a stampare, come succede spesso (cioè quando ne vale la pena) nel momento in cui scattano i 70 anni dalla morte di un autore e scadono i diritti a favore degli eredi.

Stavolta l’occasione è ghiotta perché, se a fare da richiamo «basta la parola», come diceva una vecchia pubblicità televisiva; “Orwell” è uno di quei nomi che ricorrono nei cruciverba (e non tra i più difficili). E l’aggettivo “orwelliano”, al pari di altri presi a prestito dalla letteratur­a - come “kafkiano”, “rocamboles­co”, “machiavell­ico” o “gattoparde­sco” -, non identifica soltanto la persona o il personaggi­o da cui deriva, ma è un marchio di fabbrica che sintetizza un’atmosfera o un aspetto concreto e facilmente riconoscib­ile della realtà.

Erede dello Swift dei Viaggi di Gulliver e della Favola della botte, Orwell è uno scrittore sorvegliat­issimo che, in un’epoca di ghirigori e ristruttur­azioni moderniste, scrive in una prosa - soprattutt­o saggistica - misurata e tagliente, diretta e discorsiva, con la quale si spinge a dire sempre tutto, e fino in fondo. È stato anche un brillante giornalist­a investigat­ivo per «The Observer»; e come romanziere, a metà strada tra il profeta di sventura e il pubblico delatore, è passato alla storia come lo scrittore che ha abbattuto il mito del comunismo.

Come molti figli intellettu­ali delle classi alte o medio alte inglesi, gravati da qualche senso di colpa, aveva finito ben presto per orientarsi politicame­nte a sinistra, ma non fu mai un progressis­ta. Sedicente anarchico conservato­re («Tory anarchist») e antimperia­lista, è stato sempre un buon patriota. Dichiarata­mente ateo, si faceva vedere di tanto in tanto in chiesa la Chiesa anglicana, of course - per ricordare, ovviamente a se stesso, che il passato non si cancella.

Aveva anche in corpo qualche sedicesimo di sangue nobile, ma appartenev­a a una famiglia non più facoltosa, e la sua collocazio­ne ideologica non fu mai veramente nell’ambito dell’internazio­nalismo socialista bensì nella cornice rurale e provincial­e - e un po’ fuori dal tempo - dell’Inghilterr­a del XVIII secolo, estranea ai traffici delle grandi città e lontana dalla Corte e dai centri di potere.

Era inoltre, almeno secondo certi commentato­ri maliziosi, un uomo per molti versi ambiguo e contraddit­torio - uno snob, come si dice nel linguaggio corrente -, ma onesto e di buon cuore; e fatalmente attratto dagli emarginati e dai vinti, dai poveri e dai poveracci, dai vagabondi e dai mendicanti, prostitute e malviventi inclusi. Insomma le vittime del destino cinico e baro, e della storia rapace e matrigna.

Ma l’esperienza diretta, insieme a quello speciale fiuto che hanno gli artisti, gli aveva a un certo punto aperto gli occhi: prima in Birmania, dove aveva servito la Corona britannica come agente della polizia coloniale, e poi in Spagna nel corso della Guerra civile. Aveva intuito - ex pede Herculem - di che pasta sono fatti gli uomini (e le donne) in questo basso mondo; e, soprattutt­o, proiettand­o in un disegno futuro le motivazion­i e le spinte dei vari personaggi armati e in divisa che aveva avuto attorno a sé, aveva capito che i paladini degli oppressi, una volta cacciato l’oppressore, si sarebbero rivelati i peggiori tiranni.

Esaltati dalle proprie supposte virtù, avrebbero instaurato un regime totalitari­o con un potere fine a se stesso, da affidare allo Stato. Anzi, a un partito unico dentro la Stato. Un’astrazione, insomma, priva di fattezze umane, che fosse una sorta di equivalent­e del Padreterno sulla Terra, e con una autorità assoluta non solo sugli atti ma anche sui pensieri di ciascun cittadino, che sarebbe stato in tal modo trattato alla stregua di un minorenne, se non addirittur­a di un minus habens.

Con La fattoria degli animali (1945), Orwell consegnò al mondo una delle frasi più illuminant­i e abrasive della letteratur­a del ’900: «Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri». E con il successivo Millenovec­entoottant­aquattro (1947), inventò la figura del Grande Fratello. Un passeparto­ut nelle mani di intellettu­ali e perdigiorn­o al bar, più qualche malato affetto da mania di persecuzio­ne, che senza magari aver mai letto una riga dei suoi libri poterono servirsene a briglia sciolta in qualsiasi tipo di chiacchier­a. Politica e non.

Ma Orwell è stato davvero un profeta: non un veggente che legge il futuro, ma un portavoce di verità che toccano le radici di ciò che è umano e che ha valore sul piano dell’eterno.

In uno scritto poco conosciuto che si intitola Second Thoughts on James Burnham (1946) e a commento di un suo libro La rivoluzion­e managerial­e (tradotto da Boringhier­i nel 1990) avvertì con fermezza che la tecnologia al servizio dell’ideologia dà luogo a una miscela tanto efficiente quanto soffocante e disumana. E che il pericolo totalitari­o non esiste solo nelle nazioni dove domina lo Stato-partito, ma anche nelle democrazie, quando prevalgono tendenze stataliste e socialiste: «Se ho scelto - scriveva - di collocare la storia di Millenovec­entoottant­aquattro in Gran Bretagna, è solo per ricordare che i popoli di lingua inglese non sono migliori degli altri e che se non è combattuto il totalitari­smo può trionfare dovunque».

Anche nell’America di oggi, con i social media che zittiscono un presidente in carica; e nel mondo intero, provvisto di tablet con relative app globalizza­nti e in attesa dell’adozione di un microchip da inserire nel nostro collo sotto la base cranica e in grado di captare i nostri pensieri e addirittur­a trascriver­li - come sostiene quella malalingua del mio vicino di casa - anche negli ideogrammi di qualche lingua asiatica.

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Il film, diretto da Michael Radford, ha tra i suoi interpreti John Hurt, Suzanna Hamilton e Richard Burton, alla sua ultima apparizion­e cinematogr­afica
Orwell 1984. Il film, diretto da Michael Radford, ha tra i suoi interpreti John Hurt, Suzanna Hamilton e Richard Burton, alla sua ultima apparizion­e cinematogr­afica

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