Raffaello colorò la «Galatea» della Farnesina con l’antichissimo «blu egizio»
Ricerche condotte sul celebre affresco della Villa Farnesina a Roma hanno rivelato che Raffaello aveva fatto uso di un pigmento particolare, assai comune in età romana ma poi apparentemente scomparso
Protagonista di un racconto di Tomasi di Lampedusa, La sirena,è Rosario La Ciura, celebre ellenista siciliano. La voce narrante (un Corbèra di Salina, come il Gattopardo) ne elenca glorie e onori accademici e conclude: «infine, gloria massima, non era membro dell’Accademia d’Italia» (lo era, invece, dei Lincei). La scena è posta nel 1938: l’Accademia d’Italia era stata fondata nel 1927 da Mussolini come strumento del regime, e nel 1939 avrebbe fagocitato la ben più illustre Accademia dei Lincei; ma nel 1944 fu soppressa, e proprio ai ricostituiti Lincei fu devoluto il suo patrimonio. È così che la Villa Farnesina, che era stata sede dell’Accademia d’Italia, passò ai Lincei con il suo corredo di dipinti di Raffaello, Sebastiano del Piombo, Peruzzi (che ne fu anche architetto), Sodoma. E l’Accademia ha avviato sul prestigioso edificio numerosi progetti di ricerca a metà strada fra le scienze e le lettere, com’è vocazione e tradizione lincea. Basti ricordare la mostra I colori della prosperità: frutti del vecchio e nuovo mondo (curata da Giulia Caneva e Antonio Sgamellotti), dove i festoni del loggiato vennero analizzati nelle loro componenti botaniche, scoprendovi varietà vegetali appena giunte dal continente americano (vedi «Il Sole 24 Ore - Domenica», 24 settembre 2017).
Ed ecco, dal perenne laboratorio che è la Farnesina dei Lincei, un’altra novità che riguarda in pari misura storia dell’arte e tecnologia dei materiali. Ricerche condotte, sotto la guida del linceo Sgamellotti, sul Trionfo di Galatea di Raffaello (151112) hanno dato un risultato sorprendente: vi fu estesamente adoperato il blu egizio, pigmento assai comune in età romana in pittura e nella diffusa policromia dei marmi, ma poi apparentemente scomparso dall’uso. A tale scoperta è dedicato in parte un libro pubblicato dai Lincei in occasione di una mostra funestata dalla pandemia ma da poco riaperta (Raffaello in Villa Farnesina. Galatea e Psiche, a cura di Antonio Sgamellotti, Virginia Lapenta, Chiara Anselmi, Claudio Saccaroni; Bardi Edizioni, 202021). E questi risultati verranno discussi in Accademia il prossimo 25 febbraio in un seminario sul Blu egizio dall’antichità al Rinascimento, dedicato alla memoria di un grande archeologo recentemente scomparso, Mario Torelli.
Il blu egizio ha un nome davvero appropriato. A differenza di altre varietà dell’azzurro preparate con materiali naturali come azzurrite o lapislazzuli, il blu egizio non esiste in natura, e per allestirlo occorreva mescolare sabbia, rame, carbonato di calcio e natron (carbonato di sodio). Gli Antichi (come Teofrasto e Plinio) distinguevano con etichette geografiche tre tipi di blu, chiamando “di Cipro” quello a base di azzurrite e “scitico” quello con lapislazzuli. Vitruvio (VII, 11, 1) colloca ad Alessandria d’Egitto l’invenzione del terzo tipo di blu (caeruleus), ma il blu egizio è molto più antico della fondazione di Alessandria, dato che in Egitto fu usato sin dal terzo millennio a.C. Ma ora, con analisi non invasive (in particolare, fluorescenza NIR, spettroscopia, misure di luminescenza RIL) ne è stata evidenziata la presenza dove non ce l’aspettavamo: negli occhi della Galatea di Raffaello e negli azzurri del mare e del cielo che la avvolgono. A contrasto, del tutto “normale” è il Polifemo dipinto con lapislazzuli lì accanto, e quasi in simultanea, da Sebastiano del Piombo appena giunto da Venezia (1511).
Ma come avrà fatto Raffaello a procurarsi un colore così “all’antica”? L’uso che ne fece alla Farnesina aveva a che fare con il suo assiduo studio delle rovine di Roma e della scultura classica? In questo volume si affacciano due soluzioni alternative: «il rinvenimento in contesti archeologici di sferule di pigmento non utilizzato» o, in alternativa, la sperimentazione delle indicazioni sul caeruleus che dà Vitruvio nel passo citato sopra, anche se non sono una vera “ricetta” (manca la quantità degli ingredienti). Tuttavia questa ipotesi, pur se di grande fascino, incontra non poche difficoltà. Raffaello non sapeva di latino, e il suo ardente desiderio di poter leggere Vitruvio, chiave per intendere le architetture antiche, lo indusse a chiederne la traduzione in volgare italiano al ravennate Marco Fabio Calvo, ma solo qualche anno dopo la Galatea (il manoscritto con annotazioni di mano di Raffaello è a Monaco, Cod. Ital. 37). E non aiuta la lettera di Raffaello a Baldassarre Castiglione nota con le parole iniziali, Signor Conte, che cita Vitruvio e la Galatea (ma non il colore ceruleo e meno che mai la sua ricetta). Ma questa lettera è una contraffazione letteraria posteriore alla morte di Raffaello: lo si sospettò fin dal 1841, ma gli argomenti addotti nel 1994 da John Shearman sono inoppugnabili. Infine, come in questo libro si ricorda, l’uso del blu egizio è sporadicamente attestato anche in dipinti medievali (a Castelseprio ma anche a Roma nella chiesa di San Saba) e nella pittura ferrarese di primo Cinquecento (Garofalo, Ortolano). Un’indagine nei ricettari medievali sui colori potrebbe riservare altre sorprese: ad esempio la Mappae Clavicula, un testo dell’VIII secolo recentemente edito da Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio, menziona fra gli ingredienti il vestorianum, detto così da Vestorius, che secondo Vitruvio produceva il blu egizio a Pozzuoli.
E allora? Potrebbe mai Raffaello aver reinventato per suo conto il blu egizio, ripercorrendo la strada dei suoi amatissimi antichi? E come mai lo avrà preferito al blu da lapislazzuli, al suo tempo così prestigioso? Per rispondere a queste domande non dobbiamo isolare Raffaello: il suo uso del blu egizio va messo in serie con quello che si registra altrove in età post-antica. Si dovrà dunque guardare al mercato dei colori a Roma nel primo Cinquecento. Il blu egizio è un pigmento insolubile e molto resistente, che conserva nel tempo il suo bel colore, e abbonda non solo negli affreschi antichi, ma anche nelle tessere azzurre dei mosaici. È dunque probabile che nel mercato dei pigmenti circolassero anche, messi insieme da reperti di scavo o grattando qualche lacerto di affresco, piccole quantità di blu egizio, il cui aspetto ricordava lo smaltino, pigmento vitreo di largo uso. Una lettera di Paolo Giovio a Cosimo I de’ Medici, di cui so da Vincenzo Gheroldi, racconta qualcosa di simile: «pittorelli dell’età nostra» che a San Giovanni in Laterano grattano l’azzurro dagli affreschi di Pisanello. Raffaello e altri pittori (anche ferraresi) in visita a Roma attingevano a un mercato che era fatto anche così. Senza nulla togliere all’importanza delle recenti scoperte fatte alla Farnesina, la domanda va dunque riformulata così: usando il blu egizio, Raffaello era consapevole che aveva origine da un qualche reperto antico?
Di Raffaello conosciamo la grandiosa sperimentalità, che la morte precoce non gli consentì di spingere ancor oltre. Solo da poco, grazie a studi e restauri dei Musei Vaticani, siamo certi che due figure della Sala di Costantino furono da lui dipinte a olio sul muro, con audace contaminazione di tecniche. Qualcosa di simile può aver fatto, quasi dieci anni prima, nella Loggia di Galatea. Nella Lettera a Leone X che andava scrivendo con Baldassarre Castiglione, egli descrive se stesso mentre «con molta diligentia e faticha, perscruttando per molti lochi pieni de sterpi inculti e quasi inaxessibili» s’inoltra strisciando fra i ruderi in cerca di resti antichi. Vi trovò, prezioso deposito dei secoli, un blu degno dei Romani, e decise di trapiantarlo negli occhi di una ninfa, nel mare e nel cielo intorno a lei? Ebbe qualche sentore del passo di Vitruvio anche se non poteva intenderlo in latino e non ne aveva ancora a disposizione una traduzione italiana? Poté ricavarne quanto meno l’idea che esistesse un blu “all’antica”, creato ad Alessandria? La buona ricerca propone risposte possibili, ma soprattutto genera nuove domande.
L’interrogativo: come fece il Maestro a procurarsi quel colore così antico?