Donne e guerrieri in versi
Per la prima volta tradotto il capolavoro «Muttollāyiram», antologia di 131 componimenti poetici redatti in lingue risalenti a un’epoca antecedente il 1500 a.C.
«Copioso sangue e rossa pasta di sandalo»: il verso famoso è stato scelto dai curatori come emblema di un capolavoro della poesia classica tamil per la prima volta da loro tradotto in italiano ed evoca immediatamente i due grandi temi della raccolta: la guerra e l’amore. Li evoca con due immagini assolute, di archetipica potenza: il sangue non richiede commenti, la cosmetica pasta di sandalo veniva spalmata sui seni delle belle per decorarli e rinfrescarli.
Vale la pena di leggere intera la quartina: «Al rilascio di copioso sangue e rossa pasta di sandalo / che fiotta dalla rilucente lancia scagliata da re Kōtai, / sulla cui ghirlanda si aprono boccioli, / lì danzano con i fuchi le api, / lì festosi danzano giovani sciacalli». Nella strofe si intrecciano le due immagini degli animali, che significano e amplificano «le tematiche della poesia di questa raccolta», così scrivono Giovanni Ciotti e Daniele Cuneo nell’introduzione ricca e raffinata alla loro edizione del Muttollāyiram, letteralmente «La novecentina dei tre [re]»; l’opera è da poco uscita presso Ariele, editore che ancora una volta si distingue per coraggio e originalità di scelte. E così proseguono i due studiosi, di levatura internazionale già in giovane età: «Le api sono amanti che volerebbero di fiore in fiore assieme ai fuchi, ma rimangono infatuate e irretite dalla sola irresistibile ghirlanda del monarca. Gli sciacalli, invece, si pascono dei resti sanguinolenti di cadaveri putrescenti dei guerrieri nemici, riversi sul campo di battaglia devastato dal guerreggiare irresistibile di questo o quello dei tre sovrani». Viene così messo in luce anche un altro fra i requisiti della letteratura tamil classica, ossia il gioco delle convenzioni letterarie ispirate dall’«universo naturale della flora e della fauna» e ben presto codificate.
Il tamil del Muttollāyiram, antologia di 131 componimenti poetici, appartiene al gruppo delle lingue dravidiche oggi parlate soprattutto nell’India meridionale, ma diffuse nel subcontinente probabilmente già prima dell’ingresso dei parlanti le lingue indoeuropee del sottogruppo indoario, cioè prima del 1500 a.C. circa. Attualmente il tamil è parlato da circa 84 milioni di persone, in massima parte residenti nello stato indiano del Tamil Nadu (con capitale Chennai, un tempo Madras) e nelle zone limitrofe o appartenenti alla diaspora globale che conosce anche in Italia una comunità vivace e coesa. La letteratura veicolata dal tamil nella sua forma classica risale «con ogni probabilità ai primi secoli della nostra era». Le sue attestazioni più antiche sono note come letteratura del Cankam, “Consesso di poeti”, il grande complesso di poesie composte secondo la leggenda da tre assemblee di poeti che avrebbero avuto luogo a Madurai, la celebre città sacra. Una letteratura, oltre che antica, davvero grandiosa e sontuosa dal carattere prettamente profano, vigoroso e al tempo stesso sofisticato nel corrispondere a moduli tematici, stilistici, metrici rigorosamente definiti fin dalle origini, ma suscettibili di «liberare l’ispirazione poetica» degli anonimi autori. I temi fondamentali di questa poesia sono l’amore e la guerra e questo tratto continua anche nel Muttollāyiram, come si è visto; la raccolta risale probabilmente al VI secolo d.C. ponendosi così fra le prime espressioni della letteratura postCankam. Si distingue tuttavia dalle opere dell’epoca precedente perché i due grandi temi sono qui fusi nella «felice alchimia combinatoria» già testimoniata dall’esempio in esordio.
La componente guerriera converge sui re delle tre grandi dinastie del Sud dell’India, i Pandya, i Cera e i Cola, questi ultimi forse più noti anche in Occidente per la squisita bellezza dei bronzi fusi alla loro epoca. Gli invincibili (per encomiastica definizione!) sovrani sono cantati nell’esaltazione dell’inarrestabile conquista, attorniati da elefanti maestosi e assassini, simili alla morte, da cavalli che scalciano le corone dei re rivali. Come quasi sempre nella poesia indiana (indoaria o dravidica che sia), l’immaginario è eccessivo, iperbolico: così il parasole dei sovrani del Sud «offre ombra alla terra intera», essi svettano nel cielo «come la luna / incastonata tra le stelle del firmamento», addirittura i loro piedi vanno curati, graffiati come sono dalle corone dei sovrani che soggiogati si prostrano in folla a venerarli! La loro irresistibile potenza tracima inondando il cuore delle fanciulle che ne contemplano il corteo trionfale, secondo un topos letterario frequente anche nella letteratura classica in sanscrito; si innesta così organicamente il tema erotico predominante nell’opera, qui declinato unicamente con i segni dell’«amore non corrisposto» (kaikkilai) teorizzato dalla trattatistica originale. Lo preclude infatti l’incolmabile distanza sociale fra i sovrani e le giovani da loro folgorate d’amore: così, «Come una lampada dentro una giara, / rimane celato / il desiderio delle fanciulle flessuose come giunchi»; celato sì, ma relativamente, tal che le madri ansiose devono proteggere il buon nome delle figliole dalla loro passione, illegittima oltre che impraticabile. L’abbraccio naturalmente è possibile, ma solo in sogno, per cui dalla sofferenza gli incarnati impallidiscono, le braccia sfinite dal desiderio smagriscono al punto che le armille scivolano a terra. Le imprese dei sovrani, anonimi emblemi del loro eccelso lignaggio e le emozioni delle protagoniste si traducono in immagini concrete, corporee, tattili si vorrebbe dire, cui la traduzione di Ciotti e Cuneo conferisce il vivido risalto di quelle dell’originale tamil. Una festa, anzi una parata poetica, per restare in tema, multicolore, esuberante, esondante e benissimo presentata dai curatori anche nelle sue valenze politiche e propagandistiche! Attualissime, com’è evidente: i potenti - monarchi, nobili, ministri, ora anche attori, cantanti, calciatori e via enumerando vogliono veder sbandierate le loro gesta erotiche, vessillo e auspicio delle loro fortune tout court. È certo un universale antropologico: la differenza con le grandi tradizioni classiche, non solo indiane, sta purtroppo nel fatto che anticamente della propaganda si incaricavano rapsodi o poeti ispirati e culturalmente sopraffini; oggi invece, a chi viene commissionato l’arduo compito, con il relativo appannaggio? Superfluo rendere esplicita l’amara risposta.