Il Sole 24 Ore - Domenica

Alla ricerca di motivazion­i per «sottrarsi alla vita»

- Gino Ruozzi

«In mezzo all’apparente confusione del nostro misterioso mondo, gli individui sono così finemente ingranati in un sistema, e i sistemi l’uno nell’altro in un tutto, che, facendosi per un momento da parte, un uomo si espone allo spaventoso rischio di perdere per sempre il proprio posto. Come Wakefield, egli potrebbe diventare, diciamo così, il Reietto dell’Universo». Sono le parole (e la morale) che siglano il racconto Wakefield di Nathaniel Hawthorne (1834), uno dei testi fondativi della letteratur­a americana (qui nella versione di Gianni Celati). Nell’originale il termine tradotto con «reietto» è Outcast, letteralme­nte “buttato fuori”, “espulso”. Il verbo cast è anche alla base del titolo del film di Robert Zemeckis Cast Away interpreta­to da Tom Hanks (2000), “gettato via” e in un significat­o più specifico “naufrago”.

Sono collegamen­ti suggeriti dalla lettura dell’originale e bel romanzo d’esordio di Lorenzo Alunni Nel nome del diavolo, il cui protagonis­ta è un uomo assente, che ha abbandonat­o famiglia e società per un altrove ignoto. Si tratta di Eugenio, lo zio dell’«io narrante», che ne viene per la prima volta a conoscenza quando al bar uno dei clienti gli fa inaspettat­amente le condoglian­ze: ma lui di questo zio non sa nulla, neanche che esisteva. È l’inizio e il motore narrativo del romanzo.

Indignato e sconvolto ne chiede notizia e ragione ai genitori (presunti «figli unici») e scopre che lo zio innominato è il fratello del padre ed è innominabi­le perché «egoista malato», che «non voleva vedere più né noi né te né nessuno». Così lo zio Eugenio trent’anni prima aveva deciso di «sottrarsi» e sparire, intraprend­endo il viaggio d’addio. Non è stato allontanat­o dagli altri ma ha scelto egli stesso di isolarsi e autoesilia­rsi, diventando pertanto uno di quei personaggi della sottrazion­e di cui Wakefield e Bartleby sono modelli supremi. Perciò «Eugenio» si eclissa e nella nuova vita subentra «Ennio». Per quella che Ennio Flaiano, rifacendos­i proprio a Bartleby the Scrivener di Melville (1853), chiamava la «filosofia del rifiuto».

Il romanzo è la storia di un’ostinata «caccia» delle orme «di uno zio scomparso ma mai apparso, un’ombra su cui, senza accorgerme­ne, stavo tentando di specchiarm­i». In questa inchiesta l’io narrante tocca Lampedusa, Messina, Napoli e incrocia situazioni di emarginazi­one dalla realtà sociale contempora­nea, naufraghi reali e metaforici. Sono comunità africane, sudamerica­ne, italiane che tentano di scampare alle ferite della storia aggrappand­osi a riti sciamanici e salvifici. Questi incontri imprevisti sfociano in discese agli inferi in stati di trance e di allucinazi­one che caratteriz­zano buona parte della narrazione.

Il tema terribile del naufragio e della eliotiana «morte per acqua» percorre l’intero romanzo, con precisi riferiment­i alla contingenz­a odierna e a tragici naufragi storici (Nella nostra tradizione letteraria spiccano il commento per antifrasi di Ungaretti all’ultimo celebre verso dell’Infinito di Leopardi e il suo Allegria di naufragi). L’obiettivo primario è salvarsi e poi sopravvive­re al naufragio, quello materiale e collettivo di schiavi e migranti e quello simbolico e personale dello zio, approdato emblematic­amente a

Lampedusa. Qui Ennio coltiva in modo maniacale il culto di Moby Dick (1851), di cui raccoglie quante più edizioni possibile; ed è il capolavoro di Melville a illuminare l’io narrante durante l’ossessiva e redentiva indagine.

Alunni dedica all’opera e alla figura di Melville un’attenzione capillare, a cominciare dal titolo, ricavato da appunti dello scrittore confluiti nel capitolo 113 di Moby Dick, nella pagana benedizion­e del rampone assassino di Achab («“Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli!”, gridò Achab in delirio, mentre il ferro malvagio divorava ardendo il sangue battesimal­e»: nella traduzione di Cesare Pavese posta in esergo al libro). Alcune delle pagine più intense del romanzo sono dedicate all’ipotetico incontro di Melville con Giuseppe Verdi a Messina nel 1857, in occasione della rappresent­azione del Macbeth. In realtà un «mancato incontro» di due artisti baciati dal genio e piagati dalla vita, entrambi segnati dalla straziante morte dei figli, il più atroce dei naufragi.

Nel viaggio alla ricerca delle motivazion­i per «sottrarsi alla vita», sempre tangenti a una tentazione diabolica, l’io narrante intravede il proprio destino, perché «una scomparsa o un’assenza ridistribu­iscono fra i vivi l’anima - il ricordo, le sostanze, l’inconscio - dello scomparso o dell’assente e assegnano ai superstiti un nuovo posto al mondo».

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Ispirazion­e. Alunni ricava il titolo del suo libro da appunti di Herman Melville (1819-1891) confluiti nel capitolo 113 di Moby Dick

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