La lezione civile che arriva dalla pandemia
Tra le sgradevoli sensazioni che accompagnano ormai da un anno la nostra lotta contro il virus, c’è sicuramente la paura di non riuscire a cogliere fino in fondo la portata dei cambiamenti che stiamo vivendo. Il quadro di quanto è accaduto, e di quanto può ancora accadere, rimane pieno di interrogativi. Siamo immersi nostro malgrado in un flusso inatteso di eventi epocali, nel cambio di paradigma di un’intera società. Ma la narrazione è frammentata, parziale, a volte di comodo. Mettere in prospettiva i fatti, tuttora incandescenti, e distinguere tra vero e falso, è un esercizio difficile, da acrobati sul filo.
Ferruccio de Bortoli ha tentato un primo bilancio di quanto è avvenuto. Con coraggio e determinazione ha ripercorso i tornanti di una emergenza interminabile e ricca di colpi di scena, ha auscultato il respiro sotterraneo degli avvenimenti e ci ha trasmesso, con Le cose che non ci diciamo (fino in fondo), spunti e considerazioni che ci aiutano a capire la lezione civile della pandemia. È arrivato infatti il momento di riordinare le idee. Di elencare tutte le amare verità. E di chiedersi come vogliamo ripartire. Anche se il nemico è ancora in agguato.
C’è una prima chiave di lettura, nel lavoro di de Bortoli, che ci aiuta a fare chiarezza. È l’indagine sulle distorsioni dell’economia italiana, difetti imperdonabili, mai veramente curati, che il virus ha accarezzato, coltivato, rafforzato. Prendiamo per esempio la sospensione del patto di stabilità europeo, e il cosiddetto temporary framework, che ha permesso di erogare gli aiuti di Stato alle aziende: il metterli tra parentesi è stato vissuto come una liberazione dalla tirannide. Ci comportiamo come se quelle scelte fossero definitive. Ma non è così. Emerge allora, forte e chiara, la domanda di fondo: vogliamo davvero un’economia di mercato, o preferiamo una Repubblica paternalistica e assistenziale?
Il virus ha poi esaltato la tradizionale allergia che l’economia italiana nutre nei confronti della concorrenza. Durante l’emergenza sanitaria ha preso forza e ritmo la corsa a limitarla, a contrastarla ancora di più. «La pandemia è stata – osserva de Bortoli - un formidabile alleato di tutte le corporazioni del nostro paese». È fonte di grave imbarazzo inoltre il caso di alcune aziende, accanto alle tante oneste, che hanno fatto richiesta di cassa integrazione anche se non hanno avuto alcun calo di fatturato. Tanti i furbi e gli evasori che hanno chiesto e ottenuto aiuti di cui non avevano bisogno, mentre alcune categorie, per esempio colf e badanti, sono state dimenticate.
Il virus è a suo modo democratico. Tratta tutti allo stesso modo. Ma nei fatti la quarantena ha cinicamente accresciuto le differenze. Per chi stava bene, in case comode e spaziose, dotate di una connessione internet robusta e affidabile, è stata quasi una lunga ricreazione. Per chi invece stava già male, è stata ed è una gita all’inferno. C’è scarso dibattito sulle vittime dimenticate del virus. E se Il lavoro a casa ha salvato, almeno in parte, l’economia italiana, i rischi di una confusa idealizzazione dello smart working sono altissimi. Mettere radici davanti a uno schermo, anziché creare acuta nostalgia per i veri contatti umani, sembra aver accentuato l’individualismo, l’incomunicabilità, i rancori, l’ulteriore appannamento della già fragile coscienza collettiva italiana.
Insomma, le macerie del Covid sono destinate a ingombrare ancora a lungo le nostre menti. Per fortuna però la narrazione degli eventi non è povera di speranza. L’altra chiave di lettura di Le cose che non ci diciamo (fino in fondo) è infatti il ricordo dei tanti gesti di umanità, di solidarietà e di responsabilità degli italiani. La reazione alla pandemia è stata più che positiva, la rete del volontariato si è dimostrata generosa e insostituibile. La dedica del libro, ai tanti che hanno soccorso gli altri senza pensare a se stessi, è un omaggio realmente privo di retorica. Ma non è il momento di abbassare la guardia. Altre sfide chiedono una risposta urgente. «C’è qualcosa di patologico – scrive de Bortoli - nel vuoto del dibattito su istruzione, formazione, capitale umano. Questa è la cosa sinceramente più amara che non ci diciamo fino in fondo. È il riflesso suicida di una società anziana, concentrata su se stessa».