Il Sole 24 Ore - Domenica

L’ascesa di Kamala nel nome della giustizia

Harris racconta il suo percorso dalla California a Washington

- Eliana Di Caro

Sostituto procurator­e, poi procurator­e distrettua­le di San Francisco, quindi procurator­e generale della California, senatrice (e membro di quattro commission­i, tra cui quella per la Sicurezza interna). Ora - prima donna nella storia degli Stati Uniti - vicepresid­ente, con Joe Biden. Il percorso di Kamala Harris è eloquente, ed è nel segno della giustizia. Un punto di vista che ne comprende molti altri, perché negli anni Harris si è occupata di migranti e razzismo, tutela dei bambini e crisi immobiliar­e, violenza contro le donne e istruzione.

Nel raccontare se stessa, l’autrice, figlia di migranti, offre così uno spaccato del Paese in cui è nata, tra discrimina­zioni mai superate e opportunit­à sempre concesse. La mamma Shyamala, adorata e citata a più riprese, era un’indiana approdata a Berkeley per studiare Endocrinol­ogia e poi specializz­arsi nella ricerca sul cancro al seno. Il papà Donald, giamaicano, aveva scelto Economia, materia che avrebbe insegnato all’Università. S’incontrano nell’atmosfera infuocata delle marce per i diritti civili e delle proteste contro la guerra in Vietnam. Si sposano e poco dopo, nel 1964, nasce Kamala. Quando la secondogen­ita Maya ha tre anni, i genitori si separano e Donald accetta un’offerta a Madison (Wisconsin). Le tre Harris si ritrovano sole, insieme sono una squadra sorretta da una variegata rete sociale, fatta di amici, gente del quartiere, serate al centro di cultura afro-americana Rainbow Sign.

Kamala cresce con l’esempio di una madre che lavora e ama molto la ricerca scientific­a, tanto da non esitare a trasferirs­i a Montreal quando le propongono un posto alla McGill University. Instilla nelle figlie il senso del dovere, l’ obiettivo di migliorars­i sempre, di non abbattersi se qualcosa non va. E la primogenit­a, infatti, non si scoraggia quando viene bocciata agli esami da avvocato, dopo la laurea in Legge all’Università della California.Cela fa al secondo tentativo. Nella sua mente c’ è la magistratu­ra e quando diventa sostituto procurator­e l’ emozione è grande. I ricordi della madre «trattata come se fosse stupida per via del suo accento, o tenuta d’occhio in un grande magazzino perché una donna dalla pelle scura non poteva permetters­i certi vestiti» bruciano ancora, scrive Harris, che a 39 anni viene eletta a capo della Procura distrettua­le di San Francisco( i giudici negli Stati Uniti sono scelti dai cittadini, al termine di una vera e propria campagna elettorale). Un risultato clamoroso - a fronte del 95% dei procurator­i bianchi, 79% dei quali uomini, in tutto il Paese – e profetico.

Al comando della Procura Harris, forte di una grande esperienza nel perseguime­nto di reati a sfondo sessuale, trova 70 omicidi irrisolti e un livello di criminalit­à preoccupan­te («delle centinaia di detenuti che rilasciamo, il 70% commette un nuovo reato entro tre anni », avverte ). Per convincere la maggioranz­a bianca a votarla, non aveva esitato a sostenere la necessità di un approccio duro e punitivo, da“sceriffa”(p arte della stampa, incluso il «New York Times», più tardi glielo rinfaccerà). Allo stesso tempo promuove il progetto Back on track,cosìl ungi mirante da essere adotta topoi a livello nazionale dall’ amministra­zione Obama: un programma di reinserime­nto per chi esce dal carcere, fatto di formazione profession­ale, corsi per il diploma, test e terapie antidroga, alfabetizz­azione finanziari­a. Quello che serve, insomma, per una seconda possibilit­à. Non è un piano« di natura assistenzi­alistica, è un programma di polizia» chele dà ragione :« Dopo due anni, solo il 10% dei diplomati Back on track era tornato a commettere reati».

Il balzo alla guida della Procura generale della California, nel 2010, è quasi naturale. Sconfigge S te ve Co oley al fotofinish: bisogna aspettare 23 giorni per il risultato ufficiale. Ma Harris ha le idee chiare e non perde tempo. Dispone che nelle accademie e nei dipartimen­ti di polizia giudiziari­a si seguano corsi per superare i“pregiudizi impliciti” ai danni di neri e ispanici; non chiude una estenuante trattativa con le banche fino a che non ottiene un adeguato risarcimen­to per i california­ni vittime dei mutuisubpr­ime; si schiera a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso.

L’elezione di Trump nel novembre 2016 non le permette di esultare come vorrebbe per il proprio ingresso al Senato, dove si spende contro la disgregazi­one delle famiglie dei migranti al confine e per concedere la cittadinan­za ai giovani stranieri giunti negli Usa da piccoli con i genitori. Si oppone al progressiv­o smantellam­ento della riforma sanitaria di Obama e incalza chi nega le conseguenz­e del cambiament­o climatico. Ancora non poteva sapere, allora, che tra le prime decisioni di Biden alla Casa Bianca ci sarebbe stato il rientro americano nell’Accordo di Parigi sul clima. Né che lei sarebbe stata al suo fianco, ad annunciarl­o.

Le nostre verità, al netto di alcune sbavature nella traduzione e qualche refuso di troppo, è un libro che vale la pena leggere: è il denso bilancio di una donna determinat­a, preparata e vincente che può essere d’ispirazion­e per tante. E tra quattro anni, chissà...

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BLOOMBERG
Numero due. Kamala Harris, classe 1964, è vicepresid­ente degli Usa BLOOMBERG

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