L’ANIMA BUONA DEI TELEFONI BIANCHI
«L’aarte non ha bisogno di imitare il vero», fa dire Mario Camerini
un personaggio di Grandi magazzini. Per noi giovanissimi critici, che nel settembre 1975 per la prima volta vedevamo alla Mostra del Cinema nuovo di Pesaro i film italiani degli anni Trenta, queste parole furono una sorpresa. Ci ripensiamo oggi, leggendo Il cinema dei telefoni bianchi. Nel 1942, dopo un articolo di Steno sul «Marc’Aurelio», ricorda Ennio Bispuri, l’espressione “dei telefoni bianchi” si fissò come la formula con cui si indicavano le commedie leggere che erano prodotte nell’Italia fascista – in tutto circa duecento – e che, pure con le differenze di gusto e sensibilità sociale, si avvicinavano alle light comedies britanniche, alle comédies mondaines francesi e alle screwball comedies americane. Nel Dopoguerra, in un’Italia diversa, il cinema dei telefoni bianchi divenne sinonimo di cinema di regime: non fascista in senso culturale – come Terra madre o Vecchia guardia, di Alessandro Blasetti –, ma capaci di contribuire al consenso e all’accettazione dello status quo. Eppure, ci avverte ancora Bispuri, in film come Darò un milione, Gli uomini che mascalzoni o Grandi magazzini, per restare a Camerini, era la visione del mondo ufficiale che, in modo più o meno implicito, veniva smentita, confutata. Per quanto possa sembrare sconcertante, spiega, nella rappresentazione sociale di quel cinema manca uno dei pilastri di quella fascista, «la struttura clericale spalmata sulla vita quotidiana». E ancora manca la prospettiva autoritaria e patriarcale della famiglia, che invece tornerà in molto cinema degli anni Cinquanta. È da leggere, questo ripensamento di quei film lontani. Lo è anche perché dà l’occasione di comprendere i desideri di massa e la «vocazione a sognare da parte di spettatori che non chiedevano mai allo schermo nient’altro che una o due ore di svago e di sogni a occhi aperti, quasi sempre ignorando il nome del regista, degli sceneggiatori, dei direttori della fotografia, degli scenografi ecc., mentre la massima attenzione veniva riservata alle attrici e agli attori, di cui invece […] sapevano tutto». Così scrive nella Nota per la
lettura che apre il volume Giampiero Brunetta, il più attento conoscitore – fra l’altro – dell’immaginario cinematografico (il suo Buio in sala è la lettura migliore per comprendere un’arte che nasce e cresce ben dentro gli entusiasmi del suo pubblico). Torniamo a quel settembre 1975, e a Mario Camerini che, ottantenne, si trovava in mezzo a giovani che poco sapevano dei suoi film, e che li sospettavano di regime. «Ho avuto una grande sorpresa quando sono stato invitato», ci disse. «Pensavo che mi sarei preso delle pernacchie dal pubblico, quando avrebbe visto T’amerò sempre, che è del ’33. Alla fine, un grande silenzio, poi applausi e delle ragazze uscivano con le lacrime agli occhi». Il suo stupore fu anche il nostro. Ci piace ricordarlo con le parole di allora: «Il fantastico e il gusto del narrare non impediscono a Camerini di essere, per altro verso, attento alla realtà. Se non la imita, se non cerca di riprodurla piattamente, tuttavia, o proprio per questo, riesce a renderne lo spirito. Nelle sue favole la realtà e la quotidianità non entrano per mezzo delle “cose fotografate”, ma per merito della “fotografia delle cose”». Oggi confermiamo.