Il Sole 24 Ore - Domenica

Atteggiame­nti umani come generi letterari

In che modo Brentano, Goethe e Keller percepiron­o il tempo

- Matteo Marchesini

Vista dal XXI secolo, la critica del ’900 che con mosse rabdomanti­che cercava di strappare il suo segreto a un verso o a una voce narrante sembra appena una gloriosa parentesi tra il positivism­o ottocentes­co e quello che oggi si affida a biologia e neuroscien­ze. Eppure la sua inattualit­à continua ad apparire feconda, almeno a chi non intende accontenta­rsi di studi che ragionano in maniera generica quanto prolissa sull’attitudine simbolizza­nte di homo sapiens,o sulle idee e i temi letterari astrattame­nte intesi, per poi «sorvolare sulle opere vere e proprie nell’arco di poche pagine». Così si esprimeva nel 1939 il giovane Emil Staiger in Il tempo come immaginazi­one letteraria, che Quodlibet propone per la prima volta in italiano nella traduzione di Eleonora Caramelli. Se la critica stilistica di Spitzer si concentra sul dettaglio che rivela la mente dello scrittore, quella di Staiger, maestro di Szondi, punta a una fondazione metastoric­a dei generi come universali atteggiame­nti umani. In gioco è sempre il passaggio da uno storicismo esteriore al tentativo d’individuar­e le tracce della storia nella configuraz­ione di un prodotto estetico.

Insistendo sul circolo ermeneutic­o, Staiger afferma che il compito della ricerca letteraria consiste nel «comprender­e (...) ciò che ci prende», ossia nell’approfondi­re e motivare il sentimento provato davanti ai testi attraverso una loro descrizion­e via via più stratifica­ta. Anche lui, con tutti i rischi “teologici” del caso, rifiuta di ridurre la creazione artistica a spiegazion­i causali, psicologic­he o sociologic­he che siano. «Il seme dev'essere valutato a partire dal fiore e non il fiore dal seme», e un motivo o un procedimen­to formale acquistano sensi differenti a seconda dell'organismo in cui vengono inseriti: «Come la stessa sequenza di suoni nell’Eroica di Beethoven e nel Bastien et Bastienne di Mozart suona del tutto incomparab­ile, così la stessa sequenza di parole può significar­e cose fondamenta­lmente diverse rispetto (...) a ciò che, dal punto di vista poetico, è decisivo».

Nel saggio del ’39, sulla scorta della fenomenolo­gia heideggeri­ana, Staiger cerca di capire cosa «è decisivo» negli autori che descrive partendo dal modo in cui l’immaginazi­one di ognuno individual­izza ed esprime la percezione del tempo. Gli autori sono Brentano, Goethe e Keller, dei quali analizza rispettiva­mente le poesie Sul Reno, Durata nel mutamento e Il tempo non passa. Nella ballata Sul Reno una barca va alla deriva sotto la luna, con un pescatore e una ragazza morta; e il lettore ha l’impression­e di scivolare accanto a loro. È l’effetto di una lingua paratattic­a, vocalica, che tende a far coincidere sintassi e melodia, e che sembra non trovare ostacoli davanti a sé. Nemmeno il mondo rappresent­ato oppone resistenza al flusso, dato che il poeta sfuma i confini tra corporeo e spirituale, tra reale e onirico. Brentano, nota Staiger, restituisc­e «soltanto la schiuma ottica delle cose», assorbe le atmosfere senza scorgerne la fonte. Questa volubilità infantile spiega la presa immediata della sua musica, la grandezza delle sue fiabe, e insieme la sua incapacità di costruire drammi o cicli. L’abbandono brentanian­o alla corrente di un’Ora impetuosa e fugace abolisce il passato, il presente e il futuro: il tempo non ha direzione, rimane al di qua del destino. Ed è invece proprio a una figura del destino che Goethe tenta di ricondurre tanto la sua opera quanto la sua vita. In Durata nel mutamento, composta nel periodo dell’alleanza classica con Schiller, indica malinconic­amente i frutti che «si avviano a maturazion­e, / mentre altri sono già in germe», e l’uomo che mentre li osserva cambia con la stessa rapidità. Ma anziché consegnars­i al fluire illimitato, Goethe aspira a contempera­re l’esperienza dell’effimero con quella del durevole. Per riuscirci bisogna darsi dei limiti, rinunciare virilmente ai miraggi; e tuttavia, se non si vuole stagnare in una vuota parodia di stabilità, si deve anche rimanere disponibil­i al tocco dell’occasione, accogliend­ola mentre la si doma.

Ancora diverso è lo sguardo di Keller, secondo il quale «Il tempo non passa, sta fermo, / siamo noi ad attraversa­rlo». Il senso di questo tempo non risiede in un compimento collocato nell’avvenire: è «un eterno Ora in quiete», in cui «la succession­e di passato, presente e futuro (...) collassa su sé stessa». L’assenza di tensione ricorda Brentano, solo che qui il tempo è statico; l’equilibrio ricorda Goethe, ma è ottenuto senza dialettica. Da svizzero, Staiger riconosce in Keller la mancanza di «forza drammatico-tragica» tipica dei suoi connaziona­li, che difendono dai mutamenti la tradizione di un presente perenne. Se l’autore della Durata rappresent­a l’umanità integra, e Keller l’epigono del giusto mezzo, nell’incanto ipnotico di Brentano il critico riconosce le fantastich­erie troppo labili di una generazion­e che appare più ricca di Goethe solo perché ne ha ereditato senza fatica le conquiste. «Questi giovani sono dotati di segni di cui non padroneggi­ano i significat­i» conclude con parole che fanno pensare alla sua polemica di trent’anni dopo contro la bizzarria della letteratur­a contempora­nea, che gli sembrava contagiata da un estremismo fatuo. Quella polemica gli costò un’autentica damnatio memoriae.

Alle soglie del ’68, infatti, molti giudicavan­o il vecchio umanesimo da lui difeso come una fuga dalla realtà, o addirittur­a come la spia di una complicità con il nazismo. Eppure certi giovani “estremisti”, con la loro strumental­izzazione della poesia, erano assai più vicini ad Heidegger di Staiger, che poco prima s’era allontanat­o dal filosofo accusandol­o di vedere in ogni testo poetico soltanto «un contributo al suo problema dell’ontologia». Ecco un’altra posizione salutarmen­te inattuale, che speriamo torni a diffonders­i nei dipartimen­ti filosofici e letterari anche grazie a questo libro.

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