Il Sole 24 Ore - Domenica

Giovani all’ombra del duce

Un saggio ripropone gli interventi di La Penna e altri intellettu­ali che mostrano le tormentate fasi del passaggio dalla fede fascista a quella comunista

- Emilio Gentile

Immaginiam­o. 10 giugno 1940, mentre è in corso la Seconda guerra mondiale, il duce decide di trasformar­e la non belligeran­za dell’Italia in neutralità. Oppure ha deciso l’entrata in guerra, e il 25 luglio 1943 annuncia dal balcone di Palazzo Venezia la vittoria italiana. Nell’una o nell’altra ipotesi, quale sarebbe stato l’atteggiame­nto degli intellettu­ali, giovani e non giovani, nei confronti del regime fascista, totalitari­o, imperialis­ta, razzista e antisemita? Le ipotesi e la domanda appartengo­no ai “se quasi realistici” dei quali lo storico si avvale quando indaga su imprevisti capovolgim­enti della Storia, per esempio un repentino crollo di regime e capovolgim­enti di fede politica, come realmente accadde in Italia dopo la fine del fascismo.

A tale riflession­e sollecita l’articolo I giovanissi­mi e la cultura negli ultimi anni del fascismo, pubblicato nel 1947 sulla rivista comunista «Società», dall’allora ventenne Antonio La Penna, e ora riedito da Arnaldo Marcone, storico antichista, con l’aggiunta di scritti di Antonio Gramsci, Concetto Marchesi, Luigi Russo, e un saggio dello stesso Marcone sul romanzo di Carlo Levi L’orologio, pubblicato nel 1950, come espression­e della crisi dell’antifascis­mo all’indomani della Liberazion­e.

L’articolo di La Penna, divenuto uno dei maggiori latinisti italiani, è la testimonia­nza schietta dell’esperienza di uno dei «giovani cresciuti e formatisi nel secondo decennio fascista», in un «clima scolastico di entusiasmo e di fede», dove alcuni furono «incantati nel sogno della gloria e dell’impero», mentre altri, «specie negli ultimi anni, avvertivan­o il vuoto e sentivano quella vita come una facile farsa», iniziando, come La Penna, una ricerca del senso della vita e della storia nell’idealismo liberale di Benedetto Croce, nell’ermetismo, nell’esistenzia­lismo, travagliat­i da «una pena del vivere» che era «veramente, una pena religiosa, una sofferenza morale». La Penna e altri giovani approdaron­o al marxismo dopo la fine della guerra, nel momento «in cui credemmo, con religioso entusiasmo ad un capovolgim­ento delle vecchie civiltà; ... in cui ci sentimmo disperati del nostro vuoto ed il comunismo ci diede una fede ed un solido contenuto morale». I comunisti, per parte loro, avevano teso la mano ai giovani disorienta­ti «dal crollo di una fede che è ormai riconosciu­ta come falsa, ma che non è ancora stata sostituita in generale, da un’altra fede», come scrisse Celeste Negarville su «Rinascita» nel gennaio del 1945.

Il motivo della religiosit­à, come fede politica, ricorre più volte nella testimonia­nza di La Penna. E lo si ritrova in altre testimonia­nze di giovani che avevano creduto nel fascismo come religione politica palingenet­ica. Poi, nel 1940, venne la «guerra fascista». Gli intellettu­ali, giovani e non giovani, furono mobilitati per «l’interventi­smo della cultura», come lo definì Giuseppe Bottai il 1° giugno 1940 nella sua nuova rivista «Primato». Giustament­e, nell’introduzio­ne, Marcone scrive che gli anni tra il 1940 e il 1943 «rappresent­ano un periodo intricato nella storia della cultura italiana e si prestano a una duplice chiave di lettura, ovvero da una parte la ricerca di nuove vie potenzialm­ente destinate a condurre all’antifascis­mo militante, dall’altra l’affinarsi e l’aggiornars­i delle proposte culturali del fascismo per opera soprattutt­o di Bottai». Ma Bottai, va però precisato, era un fascista integrale, era un credente nel fascismo come religione politica, e un assertore dello Stato totalitari­o come fulcro della nuova civiltà imperiale, che Mussolini voleva costruire con la «guerra fascista».

E con questo, torniamo alle ipotesi e alla domanda dalle quali siamo partiti. Negli anni fra il 1940 e il 1943, si può effettivam­ente rintraccia­re fra i giovani una ricerca di vie “potenzialm­ente” dirette all’antifascis­mo militante, ma proprio l’avverbio rende legittimo domandarsi, dove sarebbe finita tale ricerca, se non ci fosse stata la disfatta in guerra e il crollo del regime mussolinia­no, avvenuti senza alcun contributo da parte dell’antifascis­mo militante. Prendiamo ad esempio l’articolo sui giovani nel fascismo pubblicato da Luigi Russo nel 1945, e riprodotto nel libro di Marcone. Il critico letterario citava un suo articolo, pubblicato su «Primato» nel febbraio 1941, ma con qualche modifica e aggiunta. Citiamo il testo originario, indicando in corsivo le variazioni: «Oggi gli umori dei giovani sono cambiati; parlare di “patria”

[Patria] con loro parrebbe troppo mediocre discorso, ricordi di quel nostro piccolo mondo moderno [nostro “piccolo mondo” del ’14] diventato, ahimé, antico. Al di sopra della patria [Patria] si viene formando una nuova religione politica, di tono e indirizzo europeo [e d’interesse sociale.] I miti dei nostri giovani hanno tutti un carattere sopranazio­nale, perché tutti volti consapevol­mente alla creazione di un’anima e di un’unità europea. Fascismo, nazismo, comunismo, liberalsoc­ialismo, democrazia, fedi antitetich­e fra loro, sono comunque presenti alla loro fantasia, o per essere accettate o per essere combattute; in ogni modo questi sono miti che chiamano i giovani fuori dagli schemi usati, per il superament­o dell’Ottocento. La guerra stessa oggi è sentita non tanto come guerra di patrie [di Patria], ma come guerra di religioni e di ideologie politiche».

Nel 1945, Russo così commentava la sua citazione, con le manipolazi­oni effettuate: «Era chiaro: la così detta “Patria” del duce e dei suoi accoliti era liquidata per noi. E ne segnavamo l’atto di morte, con le reticenze interlinea­ri che tutti gli italiani del 1941 ormai erano abituati a comprender­e». In realtà, l’articolo di Russo non aveva affatto il significat­o di un attestato di morte per la «Patria» del duce né di una «guarigione dal fascismo». Infatti, il superament­o del patriottis­mo nazionale della Grande Guerra era il motivo dominante della «guerra rivoluzion­aria fascista», che mirava al superament­o degli Stati nazionali con l’avvento di un’Europa unita sotto l’egemonia imperiale del fascismo, o, per dirla con le parole dello stesso Russo del 1941, «di quella che si potrebbe chiamare in un senso tutto traslato la nuova “romanità” e la nuova “cattolicit­à” europea».

Quali che fossero allora le intime convinzion­i antifascis­te di Russo, il suo articolo, pubblicato nel pieno della «guerra fascista», era coerente con la propaganda mussolinia­na per la nuova Europa totalitari­a, razzista e antisemita. E l’esito della sconfitta e del crollo del regime non erano affatto scontati, allora. Infatti, ci vollero ancora due anni di guerra, altre disfatte militari italiane, i bombardame­nti sulle città e lo sbarco degli alleati in Sicilia, per iniziare la «guarigione dal fascismo». E neppure dopo il 1945 fu guarigione totale.

Italiani a Roma. Cronache della capitale tra il 1870 e il 1900, uscito da poco, è un’imponente rassegna delle questioni che scossero l’opinione pubblica del cuore politico del Paese nell’ultimo trentennio del secolo.

Utilizzand­o soprattutt­o la stampa dell’epoca, integrata dagli atti del consiglio comunale capitolino, dalle discussion­i della Camera dei deputati e da una cospicua memorialis­tica, Tomassini accompagna il lettore nei meandri della politica nazionale e locale, in genere poco nota ai non specialist­i, grazie a una penna felice e al montaggio sapiente, talvolta quasi cinematogr­afico, degli eventi.

L’obiettivo del volume, del resto, non è tanto la ricostruzi­one delle fasi politiche del Regno, dall’insediamen­to degli italiani a Roma alla crisi di fine secolo, quanto piuttosto la restituzio­ne di una serie di avveniment­i apparentem­ente minori, dal suicidio di un banchiere straordina­riamente somigliant­e a Giuseppe Verdi, nel luglio del 1876, al debutto della Tosca di Giacomo Puccini, nel gennaio del 1900 al Costanzi. “Apparentem­ente”, perché in realtà i fatti che muovono l’opinione pubblica, attraendo curiosità morbose o distraendo da fenomeni che a distanza sarebbero apparsi più decisivi, restituisc­ono i confini di uno “spirito pubblico” tutt’altro che estraneo alle dinamiche politiche tradiziona­li.

Un caso tipico è quello offerto, nel periodo 1882-1887, dall’ascesa, caduta e resurrezio­ne di Francesco Coccapiell­er, una figura popolare, originaria­mente legata al mondo garibaldin­o, che, attraverso un giornale esplicitam­ente indirizzat­o alla diffamazio­ne e allo spaccio di notizie false o tendenzios­e, aveva costruito una rapidissim­a notorietà: eletto deputato alle politiche del 1882, dimessosi nel 1883, indiziato da Cesare Lombroso di atteggiame­nti mattoidi (nonostante non avesse mostrato «alcuno dei caratteri dell’uomo criminale e meno ancora dell’alienato»), sarebbe rientrato alla Camera nel 1886. Lo spazio politico Coccapiell­er, sospettato di legami occulti con gli ambienti governativ­i, lo aveva trovato senza molto sforzo: il degrado della vita parlamenta­re e l’antipoliti­ca, a Roma, erano ormai pane quotidiano. Un settimanal­e edito da Angelo Sommaruga e diretto dal professor Pietro Sbarbaro, «Le Forche Caudine», aveva incontrato il favore dei lettori proprio attingendo alla sorgente sempre copiosa

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Uno dei poster dei Prelittori­ali che si svolsero a Venezia nel ’37
Manifesti. Uno dei poster dei Prelittori­ali che si svolsero a Venezia nel ’37

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