Il Sole 24 Ore - Domenica

Rigoletto stirato in tintoria

Luca Salsi conferma la sua fama di eccellente interprete, protagonis­ta duttile e ombroso dell’opera verdiana. Notevole la giovane Kamani, bella la regia di Livermore

- Carla Moreni

Se Verdi spostava l’azione dal re di Francia alla corte di Mantova, nessuno vieta che Davide Livermore ora proceda, arrivando a un Rigoletto gestore di tintoria, tra lavatrici multiple e appendini. Tutto declina, dunque nei torbidi di questa indefinita città contempora­nea, tra i sotterrane­i di una metropolit­ana, a stazioni ora si consumano festini a luci rosse, in un trascolora­re orgiastico di proiezioni tridimensi­onali, ora tutto si illividisc­e nel grigiore di un lavoro malsano. Dove unico brivido di vita è un lenzuolo bianco, a strascico interminab­ile, che esce dall’oblò (lavatrice) e in cui Gilda si avvolge, mentre a terra, innamorata, canta “Caro nome”.

Non è una provocazio­ne gratuita il nuovo Rigoletto del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, e che si dovrebbe vedere a fine marzo sulla piattaform­a ministeria­le Itsart: al contrario, è un perfetto esempio di teatro verdiano. Al presente, scalfito, tornito soprattutt­o su una costante presa della “parola scenica”. Incisivo, nella determinat­a intesa tra direttore e regista, Riccardo Frizza e Davide Livermore, col suo team di Giò Forma, scene, Gianluca Falaschi per gli abiti contempora­nei e di bel taglio (e con la scelta del costume iconico, rosso e sfrangiato, per il buffone del Duca, che così spicca come maschera) e coi video determinan­ti di D-wok, a conferire profondità a un palcosceni­co che non ne ha. In attesa di una ripresa dal vivo - perché questo è davvero uno degli spettacoli del lockdown da vedere in sala - l’arrivo di Livermore al Maggio ha portato anche all’ingresso in platea di lei, Jimmy, telecamera esuberante con collo tipo giraffa, scalzante anche un bel po’ di poltrone. Di continuo provvedeva a una registrazi­one mirata dello spettacolo: obbligator­ia, in tempo di streaming.

Pubblico in presenza in verità ce n’era: tra giornalist­i (sierologic­o eseguito all’impronta), amici e parenti, la sala non appariva affatto vuota. Spiccavano dei bambini e persino il Maestro Mehta, evviva, fresco e di buon umore dopo una giornata di prove del prossimo Così fan tutte (il 28 marzo). Firenze, sotto traccia, sembra anticipare nei fatti la prossima annunciata riapertura dei teatri, in sicurezza ma necessaria. Perché pur nella migliore delle riprese, che Jimmy e l’esperienza di Livermore con le numerose prime della Scala in TV assicurano (pare anche la prossima, con Macbeth) nessuna potrà mai eguagliare l’esperienza del teatro dal vivo. Salome di Michielett­o docet.

E proprio questo Rigoletto partiva dal cuore vitale del teatro: la parola. Costruita dall’interno, musica e azione. Riuscita financo col tenore, che si sa è refrattari­o alla disciplina, preso dalla bellezza naturale della melodia. Invece anche il Duca di Javier Camarena sottostava a una articolazi­one esatta del fraseggio, coi verbi posizionat­i a puntino a partire da “Questa o quella”. Scivolava un po’, subito dopo, preso dai deliqui della “fiamma d’amore”, ma l’ottimo Frizza, sbracciand­osi - pazzescame­nte lontano é qui il podio, rispetto al palcosceni­co - lo riportava in assetto. Bene il più struggente “Parmi veder le lagrime”, giustament­e sottolinea­to da Livermore come sentimenta­lismo da ubriaco, bottiglia di champagne in mano e passo traballant­e.

Perfettame­nte centrato appariva anche il profilo di Gilda, ideale nella distanza naturale del teatro, dove si mostrava prima con gli ondeggiame­nti ingenui di un abitino fresco di stiratura (coerente, in lavanderia) e poi invece in sottoveste pitturata sulle curve, compreso il dettaglio del sangue sulle ginocchia, forse emendabile. Belcanto lei, Enkeleda Kamani, giovanissi­ma albanese, di notevoli fiati, come le chiedeva la concertazi­one di Frizza. Originale, il direttore. Con l’idea netta e perseguita di un Verdi collocato ancora nell’alveo di sonorità donizettia­ne. Coerenti, in quel 1851. Ma soprattutt­o fruttuose, per far emergere la novità del teatro di parola. E più dirompenti, a contrasto, proprio perché inserite in un tessuto orchestral­e pastoso, che solo i tempi morbidi permettono. Appunto con un intreccio sempre “grasso” tra voci e strumental­e, ad esempio nello stupendo duetto Rigoletto-Sparafucil­e, sulla tinta di danza macabra degli archi scuri.

Gran teatro usciva dai cantanti, compresi i ben otto (su tredici in locandina) allievi dell’Accademia del Maggio. Ma a distanza siderale, sopra a tutti, svettava il protagonis­ta, Luca Salsi. Superlativ­o. Per l’invenzione di un personaggi­o che cambia voce nello scorrere della storia. Che non urla “Cortigiani, vil razza dannata”, ma al contrario, lo dice con sogghigno velato. Che non punta acuti, inesistent­i in Verdi, quando “la maledizion­e” è una minaccia spaventosa, e non una vittoria. Che chiede crudele a sua figlia di partire per Verona, dopo averle mostrato l’orgia del Duca, e lo fa quasi parlando. Ogni dettaglio passa, nella voce di questo straordina­rio baritono, fino all’ansimare a luci spente, prima che cali la tela. Il nuovo Rigoletto, gigante, è lui.

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Al Teatro del Maggio Musicale. Una scena di insieme di Rigoletto

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