ETIOPIA - DAL MEDIOEVO AL NILO
Castelli d’Africa. L’altra faccia del Continente Nero. Tra manieri, chiese in pietra, cascate e altopiani
L'altra faccia, nascosta, del continente nero.manieri cavallereschi delle corti abissine, splendide chiese di pietra. E poi, cascate, laghi, altopiani. Viaggio tra Salomone, la Bibbia, la bellezza di un paese quasi senza turismo
“Un demonio nella peggior fase della più tremenda sbornia”: Paolo Caccia Dominioni, scrittore lombardo, ingegnere e architetto, immagina così il creatore dell’altopiano etiopico quando, soldato, ci arriva negli Anni Trenta. Certo, non si aspetta savane, animali selvaggi, dune di sabbia, giungle tropicali. Ma nemmeno quella distesa infnita di pietra ruvida dalle forme ardite, tagliata da profonde incisioni, con un andamento talmente folle di canyon e montagne, da sembrare il disegno di un pazzo. Un luogo unico al mondo, meta ideale per chi oggi cerca un’Africa ancestrale, diversa da ogni immagine classica o stereotipo, con natura e tradizioni ancora autentiche. Il nord dell’Etiopia è un immenso tavolato roccioso, il più vasto acrocoro del Continente Nero, alto tra i 2.000 e i 4.000 metri e lungo migliaia di chilometri (con 60 vette oltre i 3.000 metri), che precipita verso valle in calanchi da brivido, punteggiato da ambe (montagne dalla cima piatta), fumi, laghi, cascate, e ingentilito da euforbie a candelabro, tamerici, lobelie giganti, rose abissine, le uniche dell’Africa. E poiché non è ancora trascorso abbastanza tempo geologico per levigare i contorni dei dirupi e addomesticare le asprezze dei basalti, lo scenario è uno dei più drammatici e primitivi del mondo. Qui batte il suo cuore di pietra, solida, immutabile, che ha creato e ne ha difeso natura e tradizioni, diventandone fondamento e simbolo. Qui nasce il Nilo Azzurro e si apre la Rift Valley che, come una scimitarra, lo taglia in due mostri di roccia frastagliata, legando il Tropico del Cancro a quello del Capricorno. È nei suoi anfratti che sono stati trovati i resti di Ramidus e Lucy, tra i più antichi progenitori dell’umanità, ominidi che quattro milioni di anni fa scesero dagli alberi e iniziarono a camminare, conservati al
Museo Nazionale di Addis Abeba (King George VI street). Ed è nelle sue inaccessibili valli che il cristianesimo è rimasto cristallizzato all’epoca delle origini. Una manciata di monaci vi arrivò nel quarto secolo: divennero decine di migliaia e costruirono centinaia di chiese. Un luogo unico al mondo, dove sopravvive una religiosità che ha conservato intatti riti e simboli più arcaici, primo fra tutti la croce, legato con un flo indissolubile alle radici spirituali dell’Occidente.
Bellezza e cultura oggi riscoperte, e celebrate, con il volto di Liya Kebede, top model e designer etiope, apparsa in copertina su decine di riviste, ospite d’onore di Alberta Ferretti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. E anche raccontate con nuove mostre e libri: a Milano, Gli Ori del lago Tana (riquadro a destra); a Venezia, Ethiopia, Spiritual Imprints, rassegna della fotografa greca Lizy Manola, negli spazi
Il Timkat, l’Epifania copta (11-24 gennaio) è il momento più spettacolare per vedere monaci e fedeli che affollano le chiese rupestri di Lalibela
dell’Offcina dell’Arte Spirituale sull’isola di San Giorgio Maggiore (fno al 20 ottobre), accompagnata dal volume Ethiopian Highlands (assouline.com).
Per scoprirla in prima persona si deve percorrerne il suo cuore di pietra: dalle stele di Axum alle chiese rupestri del Tigrai, dalle basiliche nella roccia di Lalibela ai castelli di Gondar, la Camelot africana, fno alle isole sacre del lago Tana. Un itinerario su strada lungo più di 2.000 chilometri, che oggi diventa più comodo: grazie ad alcune tratte che si possono fare in aereo e a nuovi, confortevoli lodge e hotel. Il nord del Paese è tranquillo, da scoprire approfttando dei tour individuali (ma sempre con guida-autista), proposti da operatori specializzati a un costo interessante, e che ognuno può costruire come preferisce (una decina di giorni, da 2.500 € a testa, voli compresi, anche a Natale. Info a pag. 103).
Base di partenza, Addis Abeba, capitale moderna e caotica a 2.300 metri ai piedi del Monte Entoto. Qui merita una visita il Museo Etnografco (Algeria street), nella ex residenza del governatore italiano ai tempi dell’Impero coloniale e, in seguito, di Hailé Selassié. Da non perdere, i curiosi arredi originali del Negus (compreso il suo sontuoso letto istoriato) e la collezione di icone sacre, tra le più ricche del mondo. Chi vuole fare acquisti deve approfttare della sosta in città: lungo l’itinerario si trovano molti souvenir, ma di scarsa qualità. Tra gli indirizzi migliori, che coniugano stile afro a modernità, la superchic St. George Gallery (con un negozio anche in Virginia, Stati Uniti): propone una collezione unica di gioielli di design, dipinti dei più importanti artisti contemporanei locali, opere di folk art, stile tradizionale etiope spesso a carattere religioso, croci antiche e moderne in legno e argento, sculture, scatole e maschere, raffnati tessuti artigianali, libri. Qui si trova il pezzo speciale, ma non l’affarone: i prezzi sono europei, all’altezza della qualità. E non si tratta. Portano la frma Muya Ethiopia, della fashion designer etiope Sara Abera, le stoffe e i gioielli da Uneca Shop, ispirati ai modelli tradizionali, ma con un gusto più ricercato. Da comprare, coperte, scialli, tovaglie, ceramiche e collane in argento e pietre dure. Qualche affare si può fare da Salem’s Ethiopia, atelier e laboratorio: originali bijoux e tessuti dalle trame etno-chic.
Non può mancare una sosta per gustare il celebre e aromatico caffè etiope. Il migliore della città? Lo storico Tomoca (Wevel street, tomocacoffee.com): atmosfere Anni Venti, tazzine fumanti alla moda italiana e miscele da mettere in valigia. Anche chi vuole assaggiare l’autentica cucina etiope deve approfttare di Addis Abeba. Nelle altre città dell’itinerario è consigliabile mangiare nei lodge e negli alberghi, soprattutto per la qualità degli ingredienti e la pulizia. Il ristorante da non perdere? Yod Abyssinia: assolutamente turistico, con tanto di balli e canti tradizionali. Ma è spazioso e propone un ottimo buffet con più di 35 varietà di piatti tradizionali: salse, zuppe, carni, verdure, dolci e tanta n’injera, celebre piadina etiope. Il tutto annaffato dalla locale birra St. George. Il prezzo: da 15 euro. Per chi invece non sa fare a meno della vera cucina italiana, Castelli, ritrovo di vip: celebre, caro (da 40 €), con piatti che potrebbero non soddisfare i palati più esigenti. Si alloggia all’Intercontinental o al Ra-
Affacciato sul lago Tana, il Kuriftu Resort & Spa è un raffinato retreat in stile afro chic, circondato
da piantagioni di caffè e mango. Da non perdere, al tramonto, i cocktail sulla terrazza
disson Blu: moderni e confortevoli. Nulla di più.
Prima tappa, da raggiungere anche con un breve volo, Axum, che da millenni conserva un doppio segreto: era qui la dimora della regina di Saba? E in una sua cappella è nascosta la stessa Arca dell’Alleanza che Mosé portò dal Monte Sinai? Città-sacra, capitale del più grande regno dell’antichità africana e culla del cristianesimo copto monofsita, Axum ha radici incerte che si perdono nella leggenda della regina di Saba, del suo incontro con re Salomone, il primo sul trono di Giuda, e del loro fglio Menelik. Fu lui il capostipite della dinastia salomonide che ebbe in Hailè Selassiè, spodestato nel 1974, l’ultimo esponente. E la favolosa Arca dell’Alleanza con le tavole della legge, donata a Menelik dal padre? Lo scrigno in legno d’acacia rivestito di lamine d’oro sarebbe nascosto a Gerusalemme. Altri sostengono sia invece ad Axum. O in Messico… Già dagli specialisti della Società Geografca Italiana, che nel 1938 curarono la Guida dell’Africa Orientale, l’Arca viene descritta come un oggetto-simbolo, privo di fondamento storico. Una leggenda, quindi. Tanto che in tutte le chiese copte esistono almeno due arche dell’Alleanza e nelle più grandi si arriva a cinque. Ma la realtà ad Axum è di pietra. E per toccarla con mano basta fare due passi in città. Decine i blocchi di granito, risalenti forse al III secolo dopo Cristo, nel Parco delle Stele (ma ce ne sono anche altrove). Alti fno a 33 metri, alcuni sono ancora in piedi, fnemente scolpitei. Altre sono misteriosi menhir (monumenti funerari o simboli astronomici?), colossi di pietra che si ergono solitari. E se si vogliono ammirare in solitudine, basta andare nella vicina necropoli di Goudit, deflata rispetto al Parco. Meglio al tramonto, quando il sole le colora di arancione. Ci si arriva comodamente a piedi dall’hotel Yeha: spartano, un po’ delabré, ma in una posizione bellissima. Il nome viene da un tempio solare sabeo, antico quasi 3.000 anni: dista poco più di un’ora di auto, ma vale il viaggio. Unico, impressionante, è un’esperienza fuori dalle righe. Un centinaio di chilometri più a sud, percorrendo una spetta-
colare strada, si arriva in una landa semidesertica punteggiata di pinnacoli e aghi di roccia: la regione del Tigrai. Sempre la pietra racconta la storia dell’Etiopia dopo la fne del regno axumita. In fuga dai vandalismi degli eserciti che assediavano l’altopiano, artisti, scalpellini, architetti cristiani si rifugiarono tra le rocce: frantumarono le montagne, scavarono, incisero massicci e invasero grotte costruendo, fra VIII e il XV secolo, centinaia di chiese rupestri e ipogee, conservando intatto per secoli il cristianesimo copto. Hanno sfdato i millenni e sono ancora lì: gli archeologi ne hanno individuate più di 150. Le più belle? Mikael Imba, Debre Selam Mikael, Mikael Barka, Wukro Kirkos... È una perdita di tempo cercare di vederle dal basso: nascoste tra le rocce, sono raggiungibili solo a piedi o arrampicandosi su scale di legno. E meritano la fatica per arrivarci: all’interno, la sorpresa di pietra intagliata, scalpellata. Ma anche fnemente dipinta e colorata con fgure di santi e re. Un mondo angusto, magico, rischiarato solo dalla luce di qualche candela. A due passi, un’altra piacevole sorpresa, il Gheralta Lodge. Su un terreno roccioso di dieci ettari, con grandi fcus secolari e splendida vista sulle montagne, gli italiani Enrica e Silvio Rizzotti hanno costruito una decina di bungalow con tecniche e materiali usati da secoli dai contadini tigrini: muri e tetti in pietra, sofftti in legno ricoperti di terra o in paglia. All’interno, arredi e atmosfere afro-chic. E una cucina semplice, gustosa, all’italiana, preparata con verdure dell’orto e prodotti locali.
Da qui ci vuole una giornata, ma il paesaggio eccezionale non stanca mai, per arrivare alla città-capolavoro di ingegneria su pietra: Lalibela, che artisti-scalpellini hanno costruito come copia esatta dei luoghi santi in Pale- stina: Gerusalemme, il fume Giordano, le undici chiese (quattro ricavate da un unico blocco di pietra) tolgono il fato: sono come sculture, rocce divenute pareti a forza di mazzate, chiese-antro scavate a fatica, collegate da un intrico di cunicoli, quasi trincee sotterranee: ma attenzione, per evitare di perdersi meglio andarci con una guida. Acquattati negli anfratti si incontrano monaci ed eremiti che pregano per ore trasformando la chiesa da luogo a condizione di vita. Il visitatore ha un contatto emozionante e diretto con una religiosità primordiale e destrutturata, che sopravvive da 800 anni ed è devozione, trasporto. Vestiti di bianco, i fedeli affollano ogni angolo, in un rapporto strettissimo con la pietra - simbolo di santità - che baciano, su cui si inginocchiano, dalla quale traggono conforto, con la quale comunicano. Così pregano: un sommesso salmodiare, una nenia ipnotica ritmata per ore dal suono di drum (tamburi) e sistra (nacchere).
Chi preferisce assistere in solitudine a un rito così intimo, deve andare in chiesa per la prima funzione del mattino. Costa un’alzataccia, alle quattro, ma ne vale la pena. E, offrendo un piccolo obolo, si può chiedere ai preti di mostrare la croce e le vecchie bibbie, scritte in ghe’ez, l’antica lingua dell’altopiano, e decorate con raffnate miniature. Il panorama di rocce e chiese si ammira al meglio dalle terrazze a 2.700 metri del Mount View, hotel moderno dalle camere essenziali, ma spaziose, tutte con balconi, e vista strepitosa. Nel ristorante si assaggiano anche alcuni buoni piatti della cucina etiope, come il piccante stufato di pesce d’acqua dolce.
Tappa successiva: Gondar. Volendo, da Lalibela, si
Addis Abeba è il posto giusto per fare acquisti. Indirizzo di qualità, St. George Gallery, dove si trovano tessuti e gioielli unici, fatti a mano. Ma anche croci, antiche e moderne, e oggetti d’arte
può raggiungere con un volo di 30 minuti. Ma vale la pena di farsi sballottare un’intera giornata su tornanti e saliscendi lungo la China Road, strada costruita dai cinesi alcuni anni fa: si mantiene ad alta quota, e regala scorci improvvisi con soste panoramiche in territori sempre diversi. Guidando verso ovest, attraversa come una ferita un territorio di aspra bellezza, tra pinnacoli di roccia, colline verdissime e ripide scarpate che salgono fino all’altopiano di Debre Tabor.
Qui, a Gondar, al sicuro tra pietre e boschi di eucalipti, gli etiopi fondarono la capitale dell’impero. Vera sorpresa, per chi la visita: una Versailles d’Africa. Era la corte dell’imperatore Fasiladas che, nel Seicento, fece costruire da architetti portoghesi castelli imponenti, poi imitato dai suoi successori Yohannes e Iyasu, i negus del Rinascimento etiopico. Se si chiudono gli occhi, è facile immaginare una Camelot con armigeri e cavalli, servi e dignitari, dame dalle ricche vesti e musici, e sentire i ruggiti dei leoni di Giuda che testimoniavano la forza dell’imperatore. Nelle sontuose sale ricoperte di tappeti preziosi furono ricevuti gli ambasciatori dei sovrani europei, a cominciare da Luigi XVI. Nelle stanze e nei magnifici giardini si intrecciarono complotti e affari di cuore, come quello tra la regina Mentewab, vedova dell’imperatore Bakaffa, e il viaggiatore scozzese James Bruce. Per i più romantici è d’obbligo
camminare dieci minuti in più fno sulla collina, per visitare il maniero di Kuskuam che, nel 1770, fu il loro regale nido d’amore. Nudi e abbandonati, ma sempre sontuosi, i castelli si ammirano ancora tra i tamerici e le euforbie a candelabro, incendiati dai colori del sole africano. In città ci si deve accontentare di un albergo un po’ vecchiotto. Il Goha Hotel è semplice, ma gode di una posizione straordinaria, con vista sulla reggia dei negus e la città.
Ci si può però rifare soggiornando all’ultrachic Kuriftu Resort e Spa, retreat raffnato in stile afro contemporaneo sul lago Tana, a Bahir Dar, ultima tappa del viaggio, che si raggiunge in mezza giornata di auto. Un rifugio elegante in pietra, legno e arredi ricercati, con attrezzata spa, piscina in un giardino rigoglioso di sicomori e frangipane, cucina di qualità e terrazza sul lago, dove rilassarsi sorseggiando ottimi cocktail. Tutt’intorno, il profumo delle piantagioni di mango e di caffè. Sul Tana è piacevole fare escursioni a bordo delle barche dei pescatori locali per raggiungere una delle 37 isole e visitare chiese e monasteri, rifugio di monaci, re e anche dell’Arca dell’Alleanza durante i periodi bui della storia etiope. Le atmosfere colgono di sorpresa. Perché gli affreschi sulle pareti illustrano scene del Nuovo Testamento e della vita dei santi locali con uno stile originale, unico al mondo, dai colori intensi e suggestivi. Qui si conservano pitture e manoscritti risalenti al Medio Evo. Sempre facendo una piccola offerta ai monaci, merita farsi mostrare i loro tesori: icone, antiche croci, corone, paramenti sacri. Un’avvertenza: informarsi prima con la guida, perché molte chiese e monasteri vietano l’ingresso alle donne.
Un centinaio di chilometri a sud nasce il Nilo Azzurro, tumultuoso bestione liquido che precipita con un salto di 60 metri, esplodendo verso il cielo in un miscuglio impazzito di nebbie e arcobaleni, che fa fumare la gola del fume e mette a nudo uno strato di basalto a forma di cuore. Sono le cascate di Tisisat, acqua che fuma. La loro energia oggi è diminuita a causa della costruzione, a monte, di un impianto idroelettrico, e lì verrà costruita, a partire dal 2015, una delle dighe più grandi al mondo, la Millennium Dag. Ma il fascino e il fragore dell’acqua sulla roccia sono sempre impressionanti.
In Etiopia si fa un viaggio nella memoria italiana: del suo cristianesimo ancestrale, ma anche delle guerre più recenti. Proprio le ambe e le vallate dell’acrocoro sono state teatro di battaglie combattute dagli italiani: alla fne dell’Ottocento e durante il fascismo. Come la sconftta di Adua, dove il primo marzo 1896 le truppe di Menelik II disintegrarono l’esercito italiano e sbriciolarono le velleità colonialiste di Francesco Crispi e della Destra italiana. O come le vittorie dell’esercito fascista sulle truppe di Hailé Selassié, che portarono all’occupazione dell’Etiopia dal 1935 al 1941. O, ancora, le sconftte subite per mano degli alleati durante la Seconda Guerra Mondiale (vedere il riquadro a pag. 96). Oggi, quando si sosta nei villaggi sull’altopiano, i vecchi parlano ancora italiano, e volentieri si fermano a scambiare due chiacchiere. Noi siamo i turisti preferiti. E gli orrori della guerra? Gli italiani hanno costruito quasi tutte le strade dell’Etiopia. Quelle tortuose, a volte piste di sassi, su cui ancora ancora oggi si viaggia. I morti? Si dimenticano. Ma le strade rimangono. Ecco ancora la pietra, sempre eterna, dell’Etiopia.