TUTTA NOSTRA LA CITTà
PARIGI CANDIDA I SUOI TETTI A PATRIMONIO UNESCO. UN'INIZIATIVA GIUSTA, PERCHé, SOSTIENE L'ARCHITETTO E URBANISTA JAIME LERNER, BISOGNA AMARE “IL MIGLIORE DEI MONDI INVENTATI DALL'UOMO"
Bene ha fatto Parigi a presentare la candidatura dei suoi tetti come patrimonio Unesco, così come racconta Dove (servizio a pag. 58). Ogni città presenta i propri angoli di visuale più suggestivi: Rio dal Corcovado, Parigi da Montmartre, Palermo da Monte Pellegrino. Si tratta però sempre di luoghi elevati: quelli stessi che fn dal Settecento fecero da “punto di fuga” per le meravigliose incisioni, lontane antenate di Google Earth. Ma vi è un modo più domestico di vedere la città, a volo d’uccello, sorvolandone con lo sguardo i tetti e imparando a leggervi i segnali che essi lanciano. Guardate quelli di Parigi da una mansarda del Quartiere Latino e vedrete una gradevole distesa grigio-argentea di ardesia, ritmata da fnestre che sporgono con grazia. Ammirate Firenze dalla torre di Palazzo Vecchio e vedrete una piacevole estensione omogenea, ondulata, di tegole brunite dal tempo in cui scompaiono invisibili le parabole della televisione, obbligatoriamente dipinte dello stesso colore. E ora spostate lo sguardo sullo skyline di Roma, guardandolo da un terrazzo del centro storico: vedrete una sgradevole casbah sconfnata di superfetazioni abusive, dominata da una selva di vecchie antenne arrugginite e di abominevoli parabole bianche che contendono la vista alle cupole sublimi. In questa poltiglia informe hanno trovato il loro habitat ideale i gabbiani, che si moltiplicano vertiginosamente, diventando di anno in anno più invadenti e minacciosi, come gli uccelli di Hitchcock. Il gabbiano, che quando vola è una delle creature più soavi del creato, quando poi plana sui tetti dove annida, diventa goffo nell’aspetto, rauco nella voce, repellente carnivoro quando si ciba di topi. Oggi nel mondo siamo sette miliardi e più della metà vive nei centri urbani. Se la città rurale brulicava di miserabili come la Parigi descritta da Victor Hugo, se la città industriale ribolliva di confitti tra borghesia e proletariato, come la Manchester di Engels, la città postindustriale rischia l’alienazione, la trivialità, la bruttezza. Rischia di togliere ai suoi abitanti la solitudine senza dare loro l’amicizia. Rischia di ridursi a un contrasto stridente di rumori e di trash invece di essere una polifonia di uomini, donne e segni. Contro questa temibile deriva, il presidente dell’Associazione mondiale degli Architetti, Jaime Lerner, dopo avere splendidamente amministrato e trasformato la sua città, Curitiba (nello stato brasiliano del Paraná), in un modello di amministrazione universalmente invidiato, ha scritto un libro intitolato Agopuntura urbana. Sostiene che la città va amata come il migliore dei mondi inventati fnora dall’uomo e che le sue malattie non vanno affrontate con la presunzione di risolverle chirurgicamente. Occorre la delicatezza dell’agopuntura, che raggiunge capillarmente i nervi dei singoli problemi e li sorprende con un tocco sicuro e delicato al tempo stesso, capace di rendere gradevole, calda, umana, bella, solidale la vita della propria città. Quest’agopuntura urbana dovrebbe iniziare dai tetti.