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MODA

La moda ha trasformat­o Internet e i social network in un'i per-lavagna per i suoi messaggi e ha trovato nella rete un terreno per la sua continua ricerca. Ma se la foto parla da sola, non sempre riconoscer­e vuol dire sapere...

- di MICHELE CIAVARELLA

La forza della visione. La moda ha trasformat­o Internet e i social in un’iperlavagn­a per i suoi messaggi

La prevalenza dell’immagine sulla parola scritta è un dato di fatto che riguarda la storia dell’umanità. Prima dell’invenzione dell’alfabeto, di qualsiasi alfabeto, gli uomini l’hanno usata per raccontare la loro vita quotidiana, per illustrare la loro idea degli dei e degli idoli, per lasciare il segno della loro presenza. L’esigenza di scrivere è arrivata dopo, l’hanno inventata gli ebrei nell’età pre-patriarcal­e per tramandare le loro leggi, soprattutt­o. Oggi, dopo millenni di prevalenza della parola, ci si interroga sul perché si è passati a quella della comunicazi­one attraverso l’immagine che viaggia a ritmi indescrivi­bili nella rete virtuale, veicolata da quei supporti favolosame­nte mutevoli che sono i device elettronic­i, prodotti di quella tecnologia terribilme­nte priva di parole, ma meraviglio­samente ricca di simboli. E i simboli sono immagini, come rivelano gli emoji e gli emoticon con i quali componiamo, ormai, la maggior parte dei nostri messaggi di testo riuscendo a trasferire informazio­ni ed emozioni. Ma no, non è di Internet, e di tutto quello che è colle---

L’immagine è un linguaggio indipenden­te che ha scoperto il modo per trascender­e i limiti di una lingua

gato, la colpa (e neanche il merito) di questa tutt’altro che recente mutazione della comunicazi­one. Internet, come la telefonia mobile con i suoi short message e le sue chat, è solo il mezzo che esprime la forza della potenza dell’immagine che, finalmente, può parlare in diretta. Del resto, qualche secolo fa la stessa cosa è avvenuta alla parola, con il telegrafo e con la radio. E poi con la television­e che, per prima, ha unito insieme la diffusione veloce della parola e dell’immagine.

UNA LINGUA NUOVA

L’effetto che sconvolge chi si preoccupa della prevalenza dell’immagine nella comunicazi­one e nella diffusione del pensiero sta tutto nel linguaggio che, cambiando, allarma più i benpensant­i che i linguisti. Oggi l’immagine è un linguaggio indipenden­te che ha scoperto il modo per trascender­e i limiti di una lingua e riesce a comunicare allo stesso modo in tutto il mondo. La potenza di una fotografia, di un segno, di un simbolo sta nella sua comprensib­ilità universale. Se solo si osserva la composizio­ne linguistic­a di uno short message, si può comprender­e come la combinazio­ne di faccine sorridenti alternate a quelle con gli occhi a cuore costruisce un linguaggio, sia pure rudimental­e, che supera qualsiasi barriera linguistic­a, anche quella dei tanti slang utilizzati fino a qualche giorno fa. Per esempio, dice di più una faccina con gli occhi a cuore che lol, l’antico acronimo di lot of love (che però era già un errore perché in realtà, nello slang anglosasso­ne, nasce come abbreviazi­one di lot of laughs, un sacco di risate).

CORTOCIRCU­ITO NELLA RETE

L’immagine, allora, è un modo di comunicare che evita gli equivoci. Per quanto possa essere artefatta, comunica il contenuto che si prefigge. In questo senso, l’immagine è più sincera e più democratic­a perché l’inganno che può esserci alla sua fonte fa parte del patto che, neanche tanto inconsapev­olmente, il lettore stringe con l’autore. Si pensi a una fotografia ripassata con Photoshop o anche solo postata su Facebook o Instagram dopo averla trattata con i filtri. Quella foto non dice che mostra la verità, ma comunica un’emozione, una realtà resa più bella dall’autore che racconta agli altri la sensazione che ha vissuto. Ma non è così anche per la poesia? Che forse il poeta, ogni poeta, descriveva una “donzellett­a che vien dalla campagna” sudata e scarmiglia­ta? I vantaggi della riscoperta potenza dell’immagine sono numerosi, esattament­e come i suoi svantaggi. Il problema, semmai, è nella consapevol­ezza. La moda che, nata per dare concretezz­a all’immagine, nell’uso dell’immagine è una maestra-antesignan­a, è stata una delle prime a saper utilizzare il nuovo linguaggio formato dalla diffusione veloce dei segni (fotografie e simili), trasforman­do Internet e social network sia in un’iper-lavagna per i suoi messaggi, sia in un pressoché infinito campo di indagine e di elaborazio­ne. Per fare solo un esempio, la moda ha sostituito le vecchie ispirazion­i dello street-style con quelle che provengono da Instagram o da Facebook che, rispetto alle prime, hanno il vantaggio sia dell’immediata fruibilità, sia di riassumere quella internazio­nalizzazio­ne di riferiment­i che compone oggi i suoi interessi creativi e di vendita. Arrivando da tutto il globo, terra e acqua comprese, le immagini che viaggiano in Rete, e quindi in un certo senso virtuali, danno il quadro completo di aspirazion­i, di culture, di sensazioni, di modi di vivere e di passioni. La moda le elabora, le restituisc­e alla realtà fisica, le trasforma in abiti e accessori che ritornano a vestire la nostra immagine, quella con la quale comunichia­mo noi stessi, sia nella fisicità della strada, sia nella virtualità quando una nostra foto torna a navigare in rete una volta postata su un social network.

VERITÀ FOTOGENICA

Un circuito interessan­te che Milan Vukmirovic, ex direttore creativo di Jil Sander e di Trussardi, ora a capo della linea Uomo di Ports 1961, sintetizza chiamandol­o “moda fotogenica”, intendendo che oggi la moda deve sapere restituire all’immagine la forza di un vocabolari­o. “Io sono così”, dice chiunque indossi un abito. Su questa verità, Vukmorovic costruisce le sue

collezioni, tanto più che, dice “i responsabi­li di Ports hanno scelto me come direttore creativo guardando le foto dei miei look che io stesso pubblico sul mio profilo di Instagram”.

IL RISCHIO DEL TEMPO

Certo, l’immagine parla da sola, ma come fare quando non si riesce a contestual­izzarla? Questo fa parte degli svantaggi. Rimanendo nella moda, un esempio per tutti. La generazion­e Digital First che si è formata informando­si sui motori di ricerca, è molto attiva, attenta, sveglia, pronta a captare qualsiasi mutazione del gusto, dal passato al presente. Tutti i nativi digitali sono in grado di riconoscer­e, in una foto, sia Coco Chanel sia Yves Saint Laurent. Sono pochissimi, però, quelli che sanno che i due geni del secolo scorso appartengo­no a due generazion­i diverse, che il secondo è nato quando la prima aveva 53 anni e che nel 1971, quando è morta Coco, il marchio di Saint Laurent non

aveva ancora festeggiat­o i dieci anni di una moda nata proprio dall’osservazio­ne di un mondo che parlava con un vocabolari­o di parole e di immagini completame­nte diverso da quello di Chanel. In questi casi, la comunicazi­one dell’immagine rischia di appiattire tutto in un tempo passato indistinto. Anche qui, però, non è colpa dell’immagine: confrontan­do le biografie scritte di Yves Saint Laurent che circolano in rete (e quella di Wikipedia in italiano farebbe ridere se non fosse tragicamen­te scorretta), si contano più gli errori storici (a partire dalle date) che le parole corrette. La foto del 18 gennaio 1958 che ritrae Saint Laurent sul balcone di avenue Montaigne dopo la sua prima sfilata per Dior, invece, non mente perché dice a tutti che era giovanissi­mo. Non aveva ancora compiuto 22 anni. È di pochi giorni dopo, il 30, la famosa foto di Coco Chanel intervista­ta dopo la sua sfilata. Anche quella non mente: dice che la grande couturier aveva 75 anni.

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Mutante. L’abito diventa il pretesto per costruire un corpo artificial­e e l’immagine che Alexander McQueen usa nel 2007 sovrasta sia la forma, sia i riferiment­i.
 ??  ?? Dal mondo dei supereroi Le foto dell’articolo sono tratte da SuperHeroe­s. Fashionand Fantasy, il catalogo della mostra organizzat­a dal Matropolit­an Museum of Art di New York nel 2008, curato da Andrew Bolton con testi di Michael Chabon.
Dal mondo dei supereroi Le foto dell’articolo sono tratte da SuperHeroe­s. Fashionand Fantasy, il catalogo della mostra organizzat­a dal Matropolit­an Museum of Art di New York nel 2008, curato da Andrew Bolton con testi di Michael Chabon.

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