Dove

Fausta Filbier

- di F AUSTA F ILBIER foto di C HIARA S ALVADORI

A Tolar Grande, villaggio di 250 anime nel cuore della Puna argentina, c’è un solo bar, Valentina, dal nome della proprietar­ia. La donna lo aprì nel 1955, periodo d’oro della miniera, e in quel locale vendeva di tutto. Oggi, al bancone, c’è il figlio Hector. Seduta all’unico tavolo, ho bevuto una birra fresca. E, circondata da foto d’epoca e memorabili­a anni Cinquanta, mi sono sentita un po’ pioniera pure io.

O, almeno, in un posto che assomiglia molto al pianeta rosso. È la Puna argentina, un deserto costellato di montagne, vulcani, pianure di sale, lagune colorate. Una distesa immensa, pressoché disabitata. Un vuoto da riempire con il pensiero

desertum, lasciato in abbandono. È la parola che i latini usavano per indicare un luogo disabitato. e qui, a due passi dal cielo, su un altopiano che, come un gigante pigro, si sdraia tra i 3.400 e i 4.600 metri, dieci milioni di anni fa la natura ha dimenticat­o un angolo di pianeta, rimasto immutato da quei tempi lontani. Più di 200 vulcani dai coni geometrici, picchi che sfiorano i settemila metri, depression­i, dune candide di pietra pomice, lagune colorate, distese nere di basalto, laghi salati dalle mille sfumature di blu si consegnano intatti allo sguardo, raccontand­o come fosse la Terra prima dell’uomo. a questo universo ancestrale nel nordovest dell’Argentina gli antichi abitanti, probabilme­nte i Quechua, diedero il nome schietto di Puna, che significa “alto”. Un paraíso perdido da brivido, nascosto nelle Ande Centrali, limitato a occidente da una catena di vulcani e a oriente da una di montagne, una delle meraviglie del pianeta. Un luogo remoto e solitario, dalla bellezza mutevole, che regala il privilegio impagabile di fare un viaggio a ritroso nel tempo, in compagnia solo di sé stessi. e del vento che, a queste quote, grida sempre con rabbia.

Se molti conoscono gli incredibil­i scenari del deserto di Atacama, in Cile, o del Salar de Uyuni, in Bolivia, pochissimi hanno esplorato la Puna, che ne è la prosecuzio­ne naturale. Buenos Aires, con i suoi palazzi, le sue avenida e il suo tango, è distante solo due ore di aereo. ma è un altro mondo. Basta spingersi un po’ più in là di dove arrivano tutti, per scoprire uno dei pochi ecosistemi ancora integri del pianeta, una galleria d’arte a cielo aperto del vulcanismo, in un luogo talmente lontano che è persino difficile individuar­lo sulle mappe.

Si parte dai mille metri della città di Salta e poi su, fino ai tremila del passo, porta d’entrata di uno dei deserti più alti del mondo. “in un posto così non ci si viene da soli”, raccomanda Luis Giramonti, 39 anni, guida e autista esperto di origini italiane (il nonno era del lago di garda). “Sono necessari fuoristrad­a, mappe, telefono satellitar­e, scorte di acqua e carburante: bisogna, insomma, organizzar­e una vera e propria spedizione. Le piste segnate sono poche e i villaggi abitati sono sperduti nel nulla. La Puna argentina è grande circa la metà dell’Italia, ha l’aspetto dell’altopiano d’altura, ma geologicam­ente è una cordiglier­a vulcanica che, come un dio arrabbiato, s’impenna e precipita tra i tremila e i cinquemila metri. Non è facile da percorrere. il bello? gli itinerari possibili sono infiniti e ognuno può modulare il proprio come preferisce”.

L’oasi di eL peÑÓn, un miraggio neL deserto

L’abbandono modella i destini. Uomini, animali, natura convivono con ritmi antichi, primitivi. e chi ci arriva deve adattarsi all’andamento ipnotico delle giornate, che trascorron­o lente, senza incrociare nessuno, con la sensazione costante di essere in un posto unico, di vive-

re un’esperienza esclusiva. È un universo riservato a chi ama gli spazi senza confini ed è capace di lasciarsi andare in questo vuoto, affollato però di scoperte continue.

“mi è sempre piaciuto il deserto. Ci si siede su una duna di sabbia. Non si vede nulla. Non si sente nulla. e tuttavia qualche cosa risplende nel silenzio”, scriveva Antoine de Saint-Exupery. Nella Puna a risplender­e è la stessa aria: scintilla, limpida come vetro, ha un sapore che pizzica, sembra di sentirlo persino sulla lingua. La luce poi è sempre viva e accecante, a ricordare che qui si è al Tropico, con il cielo a portata di mano. azzurrissi­mo, sempre. Perché questo è un deserto e non piove quasi mai.

L’oasi di El Peñón - qualche pioppo in mezzo al nulla - sembra un miraggio cinematogr­afico. Soprattutt­o perché ci si arriva al tramonto, dopo il lungo viaggio da Salta: il sole accende d’oro le montagne e le poche case di adobe (materiale da costruzion­e fatto in prevalenza di fango) del villaggio, dove vivono 350 persone, discendent­i orgogliosi dei cacciatori che un tempo abitavano la Puna. Qui, a 3.400 metri, si fa la prima sosta nella Hosteria de Altura El Peñón. era un lodge polveroso che un consulente finanziari­o milanese, Fabrizio Ghilardi, 50 anni, ha avuto in concession­e dal governo di Casamarca e trasformat­o in un rifugio indimentic­abile. gilardi ci è venuto in vacanza 15 anni fa con la moglie Valentina Fiorio, 43 anni, architetto. “È stato amore a prima vista. abbiamo lasciato l’italia per vivere circondati da una natura incredibil­e. Qui sono nati i nostri due figli. Poco fuori Salta, in mezzo alla campagna, abbiamo costruito anche la casa di famiglia, che mia moglie ha poi trasformat­o in Finca Valentina, un relais di charme”. el Peñón è un edificio di

adobe e legno, con otto camere e una sala con tavoli, divani e un bellissimo camino dedicato alla parrilla, la graticola per cuocere la carne alla brace. gli argentini ne sono dei cultori. “Per noi è un rito”, spiega la guida Luis giramonti, che, alla sera, si trasforma in specialist­a di grigliate. “Usiamo solo la legna locale, particolar­mente profumata, altrimenti il gusto cambia. Cuciniamo bistecche, filetto, costine”. in onore degli ospiti italiani, giramonti prepara anche i tagli tipicament­e locali, gustosi e veraci: il vacìo, il cuadril, la paleta (parti laterali), gli imperdibil­i salsicciot­ti di maiale ( chorizos), destinati a fare da antipasto, i chinchulin­es (frattaglie), la morcilla (sanguinacc­io). Tra il fuoco del camino e il tepore della stufa a legna sembra di essere in un bozzolo, mentre fuori, nella notte australe, il termometro oscilla intorno allo zero.

el Peñón è il posto giusto per andare ogni giorno alla scoperta di un angolo diverso di Puna. La pista che si inoltra corre tra rocce e minerali messi a nudo dalla mancanza quasi totale di vegetazion­e. Solo la presenza delle vigogne (animali simili al lama) dà la sensazione di essere ancora sulla Terra. il deserto è la follia degli specchi e il Campo de Piedra Pomez è quello che luccica di più. altissime dune di un bianco talmente abbacinant­e che è quasi impossibil­e guardarle: è polvere finissima di pietra pomice, un gioiello della geologia unico al mondo, nato dall’antica eruzione del vulcano Blanco, la cui lava nei millenni è stata modellata dall’azione del vento e che, su un’area di 150 chilometri quadrati, ha disseminat­o migliaia di blocchi e sabbia sottilissi­ma. Camminarci è come calpestare borotalco: si sprofonda e ci si ricopre di un sottile velo candido. Basta poi seguire con lo sguardo le onde di roccia, per perdere il senso dello spazio e del il Salar de Arìzaro. Con una superficie di 1.600 chilometri quadrati è il secondo giacimento di sale della terra, dopo quello di Uyuni, in Bolivia. a sinistra, i binari e la stazione abbandonat­a di Caipe. Da qui il treno portava lo zolfo fino in Cile.

tempo, fino a contemplar­e il cono del vulcano Carachi Pampa e la sua bella laguna.

Ci sono luoghi che sembrano chiamare da molto lontano. Non si sa perché, ma, ancora prima di averli visti, si è consapevol­i che andandoci si ritroverà un pezzo di sé stessi. il vulcano Galan è uno di questi. Si trova in una delle zone più aride e remote dell’argentina, che custodisce più di 200 crateri. il posto d’onore va al galan, dal cuore ancora attivo, che sfiora i seimila metri. Svetta all’interno di un’enorme caldera dal diametro di circa 40 chilometri. La corsa al suo interno toglie il fia- to, anche perché l’altimetro segna quota 4.700. e qui, a sorpresa, le sue lagune hanno tutti i colori dell’arcobaleno, grazie alla presenza di alghe e sali minerali. volpi, vigogne e fenicotter­i sono i padroni assoluti di questo universo primordial­e.

I DUE UNICI ABITANTI DELL’OASI DI ANTOFALLIT­A

da el Peñón a Tolar Grande. ora forse si è pronti ad affrontare un attraversa­mento epico del cuore desertico delle ande: 350 chilometri di pista, attraverso paesaggi mutevoli e grandiosi, dai pascoli di Antofagast­a

de la Sierra, circondati da distese di basalto e di sale, all’oasi di Antofalla, una manciata di abitanti, pastori e agricoltor­i. e storie incredibil­i. Come quella di Corina Plaza, 78 anni. Una donnina segnata dal tempo e dalla vita dura. Lei e il fratello Roberto, 75 anni, sono gli unici abitanti di Antofallit­a, minuscola oasi in mezzo al nulla a quota 3.500 metri. vivono a meno di cento metri l’uno dall’altra, ma, trent’anni fa, hanno litigato per l’acqua. Non si parlano da allora.“vivo bene qui da sola”, racconta Corina con piglio deciso. “Sono vedova da tantissimo tempo, ho avuto otto figli e ho perso il conto dei nipoti e pronipoti. i miei familiari abitano ad Antofagast­a e a Salta. ogni tanto vengono a trovarmi, ma io preferisco la libertà. Ho la mia casa, devo badare alle pecore e ai lama, ho un piccolo orto, non mi manca nulla. Capita che passi qualche turista, che mi regala bottiglie di amaro Fernet e sigarette: sono il mio vizio. e io sono felice così”.

ancora pista e paesaggi lunari fino al perfetto Cono di Arita, simbolo cartolines­co della Puna, che si erge, nero e solitario, nella piana desertica del Salar de Arizaro. Scintillan­te e bianchissi­mo, con i suoi 1.600 chi-

in mezzo a una piana di sale fanno capolino gli ojos de Mar. Sono profondi pozzi di acqua salina dai colori dell’arcobaleno

lometri quadrati di estensione è il secondo giacimento di sale più grande della terra, dopo quello di Uyuni in Bolivia. Stordente, è un luogo di fantasmi, quasi di rimpianti, che arrivano ancora prima di esserne venuti via, e prima ancora di pensare di tornarci.

ll deserto del Labirinto, un mare confuso e impenetrab­ile di dune fossili, argillose, risalente a dieci milioni di anni fa, è invece la quinta di Tolar Grande, un’ex stazione ferroviari­a abitata da 250 persone. Sonnacchio­sa e surreale, si trova nel cuore di una distesa di terra purpurea di 3.500 chilometri quadrati, considerat­a il luogo più simile a marte presente sul pianeta. a una decina di chilometri dal paese, un’altra sorpresa: gli Ojos de Mar. Nel mezzo di una piana di sale fanno capolino, proprio come beffardi occhi di mare, una serie di pozzi, profondi alcuni metri, pieni di acqua salina, dai brillanti verdi, blu, rossi, azzurri… a fare la guardia a questo luogo così speciale, ma delicato, è Porfirio Nicomedes, 47 anni, piccolo, ma tosto. gli occhi sempre arrossati a causa del forte riverbero, tutti i giorni, a piedi, va avanti e indietro da Tolar grande. È orgoglioso del suo ruolo: “Controllo che nessuno contamini l’acqua, perché nelle pozze vive un raro organismo unicellula­re, presente in altri pochissimi posti del mondo”.

mina casualidad, le memorie dei minatori

Questa, meno di mezzo secolo fa, era una zona mineraria prospera. Mina Julia si trova poco lontano, a 5.180 metri. Nelle case costruite tutt’intorno vivevano 200 persone. Con piccone e dinamite estraevano zolfo, lo caricavano sulla teleferica che si tuffava per mille metri giù fino al piccolo paese di Mina Casualidad e poi su camion che, sulla striscia d’asfalto costruita dai militari negli anni Sessanta del secolo scorso, raggiungev­ano il villaggio di Caipe e la ferrovia. da qui il treno partiva e attraversa­va le ande, per arrivare sul Pacifico, in Cile, al porto e alle navi di Antofagast­a. Le stazioni erano 34 e nei villaggi abitavano migliaia di minatori, con le loro famiglie. C’erano ristoranti, scuole, negozi, persino casinò. Poi, nel 1979, la chiusura della miniera. e tutto è stato lasciato a perdersi così, in mezzo al nulla: paesi, chiese, vagoni ferroviari. Come se un’improvvisa eruzione avesse cristalliz­zato quel momento. Come a Pompei. È qui che il desertum si tocca con mano. Perché il fascino di questi luoghi fantasma, decimati dall’erosione e dall’oblio, si accompagna al loro destino. e la polvere, dispersa dal tempo, ha disegnato contorni di una bellezza singolare. vale la pena di entrare nelle piccole case, nei cimi-

teri tra le croci ancora colorate, nelle stazioni in rovina, perché sono avvolti nella malinconia di un sentimento di abbandono, ma anche pieni delle storie dei suoi abitanti, della fatica di scavare la montagna, delle lacerazion­i delle morti, della furia della natura. Nella chiesa di mina Casualidad, sotto l’altare, tra figurine di santi e fiori finti, è conservato un piccolo libro polveroso. vi si possono leggere le parole di chi è vissuto qui ed è ritornato, spesso per onorare i morti del vicino cimitero. Ricordi commoventi, come questo: “Sono passati 46 anni da quando sono andato via. dovevo rivedere i luoghi che ho amato, dove ho trascorso un’infanzia felice, e così chiudere il cerchio della mia vita. Firmato, Jorge Vidal, agosto 2015”.

La pista che sale verso mina Julia è da brivido, ma regala una vista incredibil­e grazie ai colori psichedeli­ci dei numerosi minerali di cui è composta la montagna. L’aria è rarefatta, si respira con difficoltà e il vento sferza duro. Proprio di fronte, il vulcano Llullailla­co (6.735 metri) racconta un’altra storia di abbandono. Sulla sua cima, nel 1999, furono trovati i corpi assiderati e perfettame­nte conservati di tre bambini di sei, 12 e 15 anni. Prescelti per la loro bellezza e per il loro elevato rango sociale, erano stati portati lassù e sepolti vivi dagli incas, che celebravan­o la capacocha, un rito di fratellanz­a tra due comunità. Sono tornati alla luce cinque secoli dopo, nella posizione fetale in cui avevano cercato un’estrema difesa dal gelo, vittime innocenti di un rituale crudele. i corpi sono custoditi nel Museo de Arqueologí­a de Alta Montaña di Salta, ma le voci risuonano ancora qui, tra le cime, e si uniscono alle parole dei minatori, al fischio dei treni, al rimbombo furioso dei picconi. La bellezza poetica è proprio nei brandelli delle loro cose abbandonat­e. È nel loro ricordo marchiato sulla sabbia e sulle pietre della Puna, dove regna il silenzio e dove il tempo si è fermato. o, forse, non è mai esistito.

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1 1. La chiesetta nell’oasi di antofalla. In questo paese vivono 35 persone, agricoltor­i e pastori. 2. La pista che porta al vulcano carachi Pampa. 3. Il salar di antofalla.
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dal villaggio di Tolar Grande si trovano gli Ojos de Mar. in queste pozze saline vive un raro organismo
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a pochi chilometri dal villaggio di Tolar Grande si trovano gli Ojos de Mar. in queste pozze saline vive un raro organismo unicellula­re.
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Sopra, le dune bianchissi­me del Campo de Piedra Pomez. A sinistra, i vulcani e le montagne che circondano l’altopiano della Puna.
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Pomez, deserto candido della Puna,
in Argentina.
Migliaia di blocchi di pietra pomice disseminat­i su un’area di 150 chilometri quadrati, a più di tremila metri: è il Campo de Piedra Pomez, deserto candido della Puna, in Argentina.
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Arizaro. 2-3. L’Hosteria El Peñón, lodge di charme nel cuore
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1. La perfetta piramide del Cono di Arita, che si erge solitario nel Salar de Arizaro. 2-3. L’Hosteria El Peñón, lodge di charme nel cuore della Puna. 2
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