TOSCANA | ON THE ROAD
Nel Grossetano, alla scoperta di un’altra Valdorcia, meno nota e battuta di quella senese, ma altrettanto spettacolare. Un itinerario scandito da borghi, monasteri, abbazie. E buoni indirizzi del gusto
Fra terra e cielo. Nel Grossetano, l’altra Valdorcia: monasteri, abbazie, buoni indirizzi
Dopo e oltre la Valdorcia più famosa, quella di Pienza, di Montalcino e dell’Unesco, c’è un’altra Valdorcia. È quella che, spingendosi oltre il letto del fiume, si insinua nel territorio grossetano e si prolunga da un lato fino alla confluenza dell’Orcia nell’Ombrone, mentre dall’altro si arrampica sulle falde dell’Amiata, lo aggira a mezza costa e si tuffa sul versante più selvaggio della Maremma, fino a sboccare a Saturnia. Ormai fuori dalla Valdorcia propriamente intesa, è un percorso che con quella condivide, senza interruzioni, una ruralità e un’affinità paesaggistica di strepitosa bellezza, tra il verde abbagliante delle vallate minori, l’argento cangiante degli oliveti mossi dal vento, i boschi ombrosi di faggi aggrappati sui fianchi della montagna, i vigneti, i castagneti e una sfilza quasi interminabile di castelli, torri, minuscoli borghi e luoghi pieni tanto di fascino quanto di storie spesso misteriose.
A fare da spartiacque anche antropologico tra queste due Valdorce, c’è l’abbazia di Sant’Antimo ,a Castelnuovo dell’Abate, fascinosissimo insediamento di origine carolingia, reso purtroppo un po’ opaco dall’affollamento di turisti. Oltrepassato il grande complesso monastico, invece, la terra del Brunello prosegue silenziosa, tra magnifiche vigne, per discendere piano piano a valle, fino a raggiungere il ponte sull’Orcia. Alto sulle rive, poco più a monte, il Castello di Velona, oggi lussuoso
resort, è il punto ideale per dare un ultimo sguardo dal versante senese a un tratto di campagna defilato e quasi privo di ogni mondanità enoica. Di là dal fiume, infatti, la Valdorcia inizia a sfumare nell’Amiata.
Due mondi contigui per storia e ambiente, uniti come vasi comunicanti da un passato turbolento e da un’anima contadina, ma al tempo stesso differenti. Qui paiono fondersi un po’ alla volta, per poi ripensarci e, quindi, unirsi di nuovo tra i tornanti della strada che, in infiniti saliscendi e altrettanti mutevoli paesaggi, porta lentamente a Seggiano: un paese di meno di mille anime, con una cinta muraria intatta, tre porte medievali e un reticolo di vicoli tra i quali perdersi a piedi, scambiandosi saluti di cortesia, con la gente seduta sulle panchine o intenta a giocare a carte ai tavoli dei bar, come si conviene nella vita della provincia profonda. Tutto appare sobrio, meno scintillante, meno pettinato, più verace che dall’altra parte del fiume.
A sud, intanto, la massa verdeggiante dell’Amiata, come una montagna-madre, ora si erge enorme e sembra indicare il cammino. Così la strada sale ancora, in un ambiente dai connotati sempre più montani, fino ai quasi 800 metri della frazione di Pescina, dove le anime vive scendono a trecento, ma i motivi di sosta si moltiplicano. L’edonismo del viandante trova ampio spazio e soddisfazione al Silene, il ristorante stellato (con piacevoli camere annesse) che lo chef Roberto Rossi cura come un figlio. O come l’orto, che coltiva personalmente. Impensabile ripartire senza portarsi dietro, come souvenir, almeno lo strepitoso panettone artigianale che Rossi produce tutti i giorni dell’anno, convinto com’è, a ragione, che non si tratti di una leccornia solo natalizia.
La componente emotiva e intellettuale della tappa è rappresentata invece da Il Giardino di Daniel Spoerri. L’artista rumeno, natu-
ralizzato svizzero, all’inzio degli anni Novanta ha cominciato a riempire di opere d’arte, sue e di altri, uno stupefacente parco-museo di alta collina (inaugurato nel 1997), dove la scultura e il paesaggio si sovrappongono, incorniciandosi l’un l’altra in una sorta di inseguimento estetico. Si gira a piedi, si capisce e perdercisi è quasi una speranza.
SU E GIÙ TRA ROCCHE E ULIVETI
Potrà allora sembrare paradossale dover riprendere presto la strada scavata sulle pendici della montagna, tenendo un occhio sui boschi in alto e un altro sugli oliveti in basso, puntando su un luogo che si chiama Castel del Piano. E che, in effetti, è tutto il contrario di quello che ci si aspetterebbe di trovare in un simile contesto, visto che sorge su un grande quanto inatteso pianoro tra le alture. La cittadina porta tutti i segni distintivi di uno storico capoluogo, dalle fontane agli eleganti palazzi nobiliari, alle belle chiese, come quella antichissima di San Leonardo. E costituisce infatti il punto di approdo della vasta rete di vie di comunicazione che, come un tramaglio, avvolgono la montagna e legano tra loro le frazioni.
Proprio una di queste vie, che ridiscende verso nord e il corso finale dell’Orcia, conduce a Montegiovi, minuscola e caratteristica borgata, già fortificata su un cocuzzolo, che, con i suoi cento abitanti,
Tutto appare sobrio, meno scintillante ma più autentico che dall’altra parte dell’Orcia
secondo come la si osserva, pare ora dominare sulla valle sottostante e ora quasi scomparire al cospetto del monte. È un posto in cui si respira un’aria di frontiera, da fossili del tempo. Da qui, però, basta percorrere circa dieci chilometri per raggiungere Montenero d’Orcia -da non perdere, nella pieve di Santa Lucia, la croce trecentesca dipinta dal Lorenzetti - e il sessantenario Frantoio Franci, una pluripremiata azienda olearia biologica che, con il suo extravergine di olivastra seggianese (preziosa e rara cultivar autoctona, coltivabile anche ad alte quote, unica ammessa nella produzione dell’olio Seggiano dop), rappresenta un’eccellenza assoluta non solo del territorio, ma nazionale. Un’altra tipicità che merita l’assaggio, poi, è il vino Montecucco doc (che diventa docg nella versione Sangiovese). Tra le tante case produttrici, l’azienda agricola biologica Basile, una piccola realtà che effettua anche vendita diretta, oltre a degustazioni guidate e visite nella cantina, cade praticamente sull’itinerario, nel tratto che da Montenero ritorna verso Monticello Amiata.
Se di vino da accompagnare alle castagne ne avessero avuto di questa qualità, viene da pensare per strada, forse la vita delle generazioni di montanari, contadini e minatori che per secoli hanno vissuto tra i boschi amiatini sarebbe stata migliore. E avrebbe dato alla gente un carattere meno burbero e meno incline al mistico. Ne fu un ottimo esempio, a metà dell’Ottocento, Davide Lazzaretti, il visionario fondatore della chiesa giurisdavidica, una sorta di cattolicesimo riformato, che era nato in un altro dei tanti capoluoghi amiatini (qui la lotta di
campanile è di casa), ad Arcidosso. Un bel borgo medievale, dominato dalla possente Rocca aldobrandesca, che merita almeno una sosta e una passeggiata tra i vicoli del centro storico. Non è da meno, per atmosfera e architetture, la vicina Santa Fiora. Per via della sua aria arcana, è stata definita un “chioccioleto di casucce”. Il paese, Bandiera arancione del Touring Club Italiano, rimane impresso nella mente grazie anche all’affascinante peschiera cinquecentesca, costruita sulle sorgenti del fiume da cui prende nome, alle pendici del borgo e circondata da un suggestivo parco alberato.
TERME E PECORINO DA PREMIO
Ci si trova ormai sul versante meridionale dell’Amiata e le vedute cominciano a digradare sulle colline maremmane che, a chiazze, affiorano in lontananza. La strada prosegue perciò tortuosa, costeggiando la Riserva naturale del Monte Labbro, sulla cui sommità si erge, severa, la torre circolare in pietra costruita dal Lazzaretti per la sua comunità. E sfiorando, in un paesaggio a tratti brullo e sassoso, spesso spazzato dal vento, il magnifico, quasi arcigno, Castello di Triana, già feudo e signoria rurale di quei Piccolomini il cui esponente più famoso, Enea Silvio, poi divenuto papa Pio II, fu in Valdorcia il fondatore di Pienza.
Sembrerebbe quasi la chiusura del cerchio e del viaggio stesso, se non ci fosse da proseguire per Roccalbegna. Se si ha la ventura di capitarci il 24 novembre, è impensabile non assistere alla Focarazza, la singolare festa rituale dedicata a Santa Caterina d’Alessandria, durante la quale, rievocandone tra sacro e profano il martirio, gli uomini dei diversi rioni si contendono i resti incandescenti di un grande palo di legno fatto bruciare su una pira e poi distribuito in pezzi a tutti i partecipanti. Altrimenti bisogna accontentarsi di visitare il museo dedicato all’antica celebrazione, oltre a godersi lo spettacolo delle due fortezze, la Rocca aldobrandesca e il Cassero senese, che da opposte alture sormontano il paese. Chi è in vena di peccati di gola non può esimersi dal fare provviste al caseificio locale Il Fiorino, famoso per la qualità dei suoi formaggi pluripremiati (tutti prodotti con il latte degli allevamenti della zona), tra cui la Riserva del Fondatore, il pecorino che ai World Cheese Awards 2018 ha conquistato per l’ennesima volta la medaglia d’oro. Una bella storia da farsi raccontare prima di scendere definitivamente verso Saturnia: non solo per godersi le celebri terme, ma soprattutto per dare un’occhiata al meno frequentato centro storico, ancora racchiuso dalle mura romane e ricco di vestigia antiche. Oltre che di ottimi ristoranti specializzati in cucina maremmana…
Oltre il fiume, il paesaggio inizia a sfumare nell’Amiata, poi verso la Maremma. Mondi comunicanti, eppure differenti