THAILANDIA | UNA VOLTA NELLA VITA Rotta per il paradiso. Una settimana di navigazione a bordo di un veliero nel mare delle Andamane, lungo la via delle spezie
Una settimana in veliero nelle acque delle Andamane, lungo la via delle spezie. La vita a bordo, la natura selvaggia, la bellezza primordiale nel racconto emozionante dei nostri inviati
Le note della Conquista del Paradiso di Vangelis, un trionfo di cori, timpani, fiati, attraversano il ponte arredato con le chaise longue, i saloni rivestiti di legni esotici, la biblioteca in stile edoardiano. Succede ogni giorno al tramonto, quando nelle acque della Thailandia prende il largo lo Star Clipper, goletta a quattro alberi con più di tremila metri quadri di vele, replica dei leggendari velieri ottocenteschi profumati di incenso, tè e cannella, carichi dell’oppio della Compagnia delle Indie. Una vacanza sulla rotta delle spezie, lontani dalle Disneyland del turismo, verso isole sperdute nel mare delle Andamane. Un piacere condiviso da 170 ospiti, che sbarcano in parchi naturali, regno di pescatori di aragoste e nomadi del mare. Come la spettacolare Phang Nga, location di Agente 007. L’uomo dalla pistola d’oro, pellicola di culto della serie (1974, con Roger Moore), e l’arcipelago delle Similan, secondo il National Geographic tra i dieci luoghi più belli del mondo per le immersioni, paradiso delle tartarughe che nidificano nella sabbia bianca: uno scenario che incantò anche l’oceanografo Jacques Cousteau quando approdò qui negli anni Cinquanta.
Si salpa da Phuket ,a Patong Bay, tra le barche, corrose dalla salsedine, di skipper vagabondi, Ulisse del terzo millennio. Dalla cima del monte Nagakerd, il grande Buddha dall’eterno sorriso, 45 metri di altezza, si staglia contro il cielo, una mano con le dita rivolte verso il basso, l’altra appoggiata in grembo: i naviganti lo invocano prima di
un viaggio. Rotta verso Ko Butang, cento miglia a sudest. Come un tempo, per issare le vele si muovono una ventina di uomini. I marinai si arrampicano agili, sulle scale di corda, fino all’ultimo pennone. Dall’albero di trinchetto scendono le vele quadre, rande e fiocchi regolati per catturare il vento si gonfiano, gli alberi cigolano, la prua si alza e si abbassa con le onde, lo scafo lungo e sottile fende il mare. Davanti agli occhi, sulla costa nordorientale di Ko Butang, punteggiata di giardini di corallo, ecco il nastro bianco smagliante di Monkey Beach, a ridosso della foresta pluviale, dove si nascondono scimmie dispettose che si impossessano degli oggetti incustoditi.
A bordo, la giornata può iniziare con una lezione di yoga o lo stretching sul ponte. Al tramonto ci si concede un massaggio prima dell’aperitivo tra gli ottoni lucenti del Tropical Bar, accompagnati dalle melodie del pianista davanti a cocktail e stuzzichini. A cena si assaggiano piatti internazionali e della tradizione rivisitati. Protagonista, il pesce insaporito da frutta e verdura locali. Migliaia di luci galleggiano nella notte tropicale: colorate nei villaggi sulle isole, verdi nei led dei pescherecci, bianche nelle lanterne delle tradizionali long tail, le imbarcazioni variopinte, con motori fuoribordo e l’asse lunghissimo.
Tra veleggiate e tratti a motore si avanza verso sud fino allo Stretto di Malacca, che si allunga tra la Malesia el’ isola di Sumatra .Sifaun tuffo nell’antica Indocina nella penisola di Penang, in Malesia, una sfilata di 1.700 edifici coloniali, dove, scriveva Rudyard Kipling, “il migliore
Si veleggia in un mare di cristallo, con soste in spiagge spettacolari
ein ex città coloniali
è come il peggiore, non ci sono i dieci comandamenti e un uomo può placare la sua sete. Perché le campane del tempio mi stanno chiamando, ed è lì che vorrei essere, accanto alla vecchia pagoda, guardando pigramente il mare...”. Si ormeggia al Pier Swettenham, il grande porto di Georgetown, la capitale multietnica protetta dall’Unesco, fondata nel 1786 dalla Compagnia delle Indie Orientali.
PALAZZI VITTORIANI E CIBI SPEZIATI
Nel labirinto di viuzze coloniali che hanno conservato i nomi britannici, punteggiate di templi e botteghe artigianali, si prende un tè su una terrazza di Love Lane, Armenian Street, Beach Street. Intellettuali, designer, nostalgici internazionali che si sono installati qui nelle fascinose dimore d’antan, snobbando i grattacieli avveniristici del boom malese, si danno appuntamento alla China House, caffè, ristorante e negozio. Imperdibile anche la sosta al Sixth Sense Store, raffinata boutique dove si trovano lini naturali e ceramiche di design coreane (sixthsensestores.com). Sul Weld Quai, il lungomare, si affacciano i bianchi palazzi vittoriani, le cui morbide linee architettoniche contrastano con Fort Cornwallis, austero simbolo della potenza britannica dei secoli scorsi. Come l’ottocentesco Eastern & Oriental Hotel, arredato con mobili coloniali, con il ristorante in riva al mare. Qua e là, ecco le antiche case peranakan (discendenti dai mercanti cinesi), come la scenografica Cheong Fatt Tze, del 1880, meglio nota come Blue Mansion, dimora di un ricchissimo mercante, dichiarata
patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Un complesso con 38 camere, cinque cortili, sette scale e 220 finestre, aperto alle visite: qui è stato girato il film Indocina, con Catherine Deneuve (1992).
Sono protetti dall’Unesco anche i clan jetties, i villaggi di casette di legno su palafitte, a cavallo dei vari moli. Il profumo di curry e le musiche di Bollywood annunciano Little India attorno alla zona di Lebuh Pasar, con l’ottocentesco Sri Mariamman Temple, in stile tamil, e il colorato gopuram, la torre votiva. Il cibo di strada è dappertutto. Alle bancarelle del Chowrastra market si gustano laksa (zuppa di noodles a base di pesce) e cendal, dolce di cocco e gelato. Da Ocean Green, in riva al mare, va in scena il meglio sbarcato dai pescherecci, dai gamberi stufati ai granchi al chili ,al dentice rosso (red snapper) con zenzero e aglio.
CORALLI E NIDI DI RONDINE
Si abbandona Penang per navigare a vele spiegate verso l’arcipelago di Butang e sbarcare, davanti alla foresta, sulle spiagge dorate dove spiccano i massi levigati di granito scuro di Ko Adang, lambita da acque smeraldo: un acquario tropicale dove si fanno incontri ravvicinati con mante maestose, pesci rana, pesci pipa, nuotando sopra colonie di spugne e variopinti anemoni, ventagli di gorgonie, corallo nero, alcionari di ogni forma e colore.
Si abbraccia l’intero arcipelago con lo sguardo salendo lungo i sentieri segnalati nel punto più alto, a 690 metri, tra cascatelle, piante carnose e sensuali, animali che non hanno paura perché nessuno li ha mai minacciati. Tutto freme, pulsa, stride, si agita sotto la volta verde. Lo spettacolo continua il giorno dopo, a una quarantina di miglia, nel braccio di mare che separa le isole di Ko Rok Yai, con la stazione dei ranger, e Ko Rok Nok, spiaggia di finissima sabbia bianca incastonata tra colline ricoperte di baniani. Una settantina di miglia a nord e si entra nel Phang Nga National Park, un habitat unico, con specie rare, come l’aquila di mare dal petto bianco. Un paesaggio onirico, che non ha nulla da invidiare alla baia di Halong, in Vietnam. Dall’alba dell’uomo a oggi, non è cambiato nulla. Centinaia di pan di zucchero di calcare ricoperti da vegetazione, alcuni alti più di cento metri, emergono dall’ acqua color smeraldo; nelle grotte e nelle fenditure si muovono i raccoglitori di nidi di rondine fatti di ramoscelli, piume, escrementi e grumi di saliva: una prelibatezza per i cinesi, che li pagano cari, credendoli elisir di lunga vita.
Lo Star Clipper dà fondo a ridosso di Ko Hong, un piccolo Eden tra ripide falesie di calcare e la baia a mezzaluna, perfetta per pagaiare i kayak. Il mare è così chiaro che le barche all’ancora sembrano sospese nel vuoto. Il veliero scivola nelle acque calme, sotto il cielo punteggiato dalla via Lattea, verso Ko Khao Phing Kan, letteralmente “le colline che si appoggiano l’una all’altra”, sfondo di una coppia di isole: Khao Phing Kan (o Ko Khao Phing Kan) e, a circa 40 metri dalle sue coste, Ko Tapu (o Khao Tapu), alto solo 20 metri: uno scoglio a forma di cono rovesciato, usato come nascondiglio da Francisco Scaramanga, il nemico di James Bond.
Le sorprese non finiscono qui. È una cartolina dai Tropici, senza resort e villaggi turistici, l’arcipelago delle Similan, parco marino protet
Reef intatto, tutela della flora e della fauna, artigianato di pregio. La Thailandia punta a un turismo responsabile
to dall’Unesco, a cui si approda dopo una sessantina di miglia: nove gioielli ricoperti da una vegetazione lussureggiante, dove si può dormire solo in bungalow e tende molto elementari.
Il mare declina tutte le sfumature dell’azzurro, nelle spiagge bianche a perdita d’occhio le tartarughe depongono le uova. La grande attrazione è soprattutto il reef strepitoso, che vanta 200 specie di coralli, nella lista dei dieci siti più belli del mondo, secondo l’associazione americana Diving International.
I MOKEN, NOMADI DEL MARE
Un numero e un nome thailandese identificano le varie isole. Come la 4, Koh Miang, seconda per superficie, dove si trova l’ufficio del parco, o la 8, Koh Similan, la più grande, con una spiaggia corallina a perdita d’occhio. La famosa Duck Bay deve il nome a formazioni rocciose dall’aspetto di anatra che dominano la spiaggia: qua e là spuntano piscine naturali color smeraldo. Sott’acqua sembra di assistere a un documentario, nuvole di glass fish si mischiano a pesci angelo, bandiera, pappagallo, chirurgo, murene e polpi ovunque, coralli variopinti vivi e non sbiancati come in tratti della barriera di Bora Bora o in alcune delle Maldive. Una pace turbata dallo sbarco, per qualche ora al giorno, di centinaia di cinesi per un selfie nella location delle più famose telenovelas d’Oriente. Ma alle tre la baia si svuota, lo Star Clipper è una delle rare barche all’ancora, il mare è per pochi. C’è chi sta a mollo in mezzo metro d’acqua, chi fa snorkeling a pochi metri da riva o raggiunge spettacolari punti di immersione. Per ammirare un caleidoscopio di colori: pesci farfalla, pagliaccio a strisce gialle e bianche, drago. E varietà di grandi dimensioni, come cernia rossa (red grouper), pesce gatto e barracuda. Ma anche incantevoli stelle marine, ricci dalle sfumature brillanti, ghost pipe fish, simili ai cavallucci.
Navigando verso Phuket, dove termina la crociera, si incontrano imbarcazioni dalle vele marroni, cariche di indigeni e noci di cocco, uccelli marini arruffati che si fanno trasportare sul ponte. Soprattutto ci si imbatte nelle kabang, le barche tradizionali, in legno, canne di bambù, con il tendalino di foglie di palma, usate dai Moken o Chao Lay, i nomadi del mare. Un’etnia animista, enigma per gli antropologi. Poche migliaia di persone senza documenti, senza nazionalità, spesso senza cognome, abilissimi subacquei e pescatori, senza radici sulla terra, che navigano da tempi antichissimi nel Sudest asiatico, costruendo palafitte nelle spiagge tra uno spostamento e l’altro. Come a Rawai Beach, a Phuket, l’ultima tappa, rifugio nel periodo dei monsoni, da maggio a ottobre, “quando gli spiriti del mare sono in collera”, spiegano i locali. Si affaccia qui Banthai May, un pugno di casette in riva al mare, bambini che sbucano da tutte
Grattacieli e mercatini sull’acqua, Spa di lusso e botteghe vintage: Bangkok vive tra futuro e tradizione
le parti, un palazzotto spartano che funziona da scuola, tempio e ritrovo per la comunità. Sulla banchina, casse di dentici rossi, gamberoni, seppie, granchi e aragoste scaricate dai pescatori.
Una vita a filo d’acqua, intrisa di leggende e magia, che li ha salvati dallo tsunami del 2004. “I vecchi si sono accorti che il mare si era ritirato di vari metri. Noi sappiamo che quando l’acqua se ne va, prima o poi torna indietro: stava arrivando il laboon, l’onda che inghiotte le persone”, ricorda Somchai, 35 anni. “La colpa non è del terremoto, ma dei movimenti del granchio gigante, che vive in una caverna nel profondo oceano”.
Oggi molti Moken per mantenersi traghettano i turisti da un’isola all’altra, fabbricano souvenir o riforniscono di pesce i ristoranti. La fondazione Jan & Oscar, creata dall’elvetica Laurence Pian in memoria dei due figli di 8 e 12 anni vittime dello tsunami, ha coinvolto i giovani nell’attività di liberare mare e fiumi dalla plastica, offrendo loro l’opportunità di ricavare dalla vendita delle reti di nylon e delle bottiglie un guadagno per sé e una risorsa per l’ambiente.
A Phuket conviene abbandonare subito Patong, troppo turistica, e andare alla scoperta del lato orientale, a Point Yamu, dove si nasconde il resort Como Point Yamu, cinque stelle in stile thai contemporaneo, curato dalla designer Paola Navone: camere con vista scenografica, piscina infinity, spiaggia privata e l’eccellente Spa Shambala. È una sfilata di casette colorate a due piani in stile sino-portoghese Phuket Town, con le botteghe di Krabi Road, Dibuk Road e Thalang Road, e Soi Rommaneee, il vicolo più suggestivo. Come in un dipinto orientalista.
Dopo lo tsunami del 2004 è cambiato l’impegno per la tutela dell’ambiente