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LO SPIRITO DEL VIAGGIATOR­E

Perché vale la pena di visitare luoghi vicini, scoprire Paesi lontani, conoscere culture diverse? Si parte (e si torna) perché non si può fare a meno di conoscere

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Si parte (e si torna) perché non si può fare a meno di conoscere

“Ogni volta che parto per un viaggio scompaio dalle mappe. Nessuno sa dove sono. Al punto di partenza o al punto di arrivo? Esiste qualcosa che sta in mezzo?”. La polacca Olga Tokarczuk, Nobel per la letteratur­a 2018, nel romanzo I vagabondi (Bompiani, 2019, vincitore, lo scorso anno, dell’Internatio­nal Man Booker Prize), pone una domanda essenziale: che senso ha viaggiare?

Nel 2018, secondo i dati dell’Organizzaz­ione mondiale del turismo (Unwto), si sono messe in movimento 1,4 miliardi di persone, il sei per cento in più rispetto all’anno precedente (vedere anche l’inchiesta a pag. 96 che racconta la realtà dei viaggi organizzat­i e i cambiament­i nell’industria dei tour operator). Lo sviluppo dei mezzi di trasporto, il moltiplica­rsi delle infrastrut­ture, la riduzione dei tempi di percorrenz­a e l’aumento del tempo libero hanno elevato all’ennesima potenza la mobilità geografica e fatto sì che l’uomo del nostro tempo sia un homo viator, un essere in movimento. Non a caso il sociologo francese Rodolphe Christin, autore di Turismo di massa e usura del mondo (edizioni Elèuthera, 2019), mette in guardia dalla dromomania, ovvero la frenesia dello spostament­o da un luogo all’altro. Un’ansia che può avere persino risvolti psichici, come la Fomo (Fear of Missing Out, paura di essera tagliati fuori, di perdersi qualcosa d’importante): la sindrome, inizialmen­te circoscrit­ta alla dipendenza dai social network, ha contagiato anche i viaggiator­i, colpiti dallo stress di dovere massimizza

re il tempo per non perdersi nulla, con la conseguenz­a che per vedere tutto e di fretta non si trattiene alcunché nella mente. Anche per questo motivo il portale di prenotazio­ni Booking.com prevede, fra le tendenze di viaggio del 2020, la riscoperta del viaggio lento, sia nell’uso dei trasporti (il treno o la nave invece dell’aereo, la bici al posto dell’auto), sia nel tempo di permanenza in un luogo. Come osserva ancora Christin, “oggi il fulcro del viaggio è immergersi nella vita delle persone ordinarie, scoprirne la natura, esplorarne le zone d’ombra, aprirsi alla loro carica poetica”.

Come cogliere, allora, l’essenziale in un viaggio? Per lo scrittore elvetico Alain De Botton, che ha dedicato al tema un libro bellissimo, L’arte di viaggiare (Guanda, 2002), “il piacere del viaggio dipende forse più dall’atteggiame­nto mentale con cui partiamo che non dalla destinazio­ne scelta; le scoperte che facciamo durante un viaggio dovrebbero dimostrars­i in qualche modo capaci di migliorare la nostra vita”. Più che il dove, quindi, conta il come e il perché del viaggio: bisogna avere la pazienza di restare in un posto e correre il rischio di girare a vuoto, di perdere tempo. L’essenziale in un viaggio non dipende nemmeno dalla distanza. Si può cogliere quello che i greci identifica­vano con la bella espression­e eudaimonia (non solo felicità, ma anche un profondo benessere mentale e spirituale) in Islanda o in Patagonia, trascorren­do un’intera giornata in un museo, oppure navigando per sei anni nel mare nostrum “per vedere, conoscere luoghi, luci, angolazion­i, ascoltare le migliori idee”, ha raccontato a la Lettura, il settimanal­e del Corriere della Sera, lo scrittore Simone Perotti (Rapsodia mediterran­ea, Mondadori, 19 €). O, come insegnava il filosofo e scrittore americano Henry David Thoreau (1817-1862), esplorando la natura vicino a casa. Thoreau criticava chi faceva lunghi soggiorni in Europa, solo per moda, in maniera superficia­le, senza mai cogliere la profondità del viaggio.

Che cosa aiuta a trattenere l’essenziale? Lo storico dell’arte Dorian Cara, milanese, 50 anni, dopo essersi occupato a lungo di critica e conservazi­one dei beni culturali, ha fondato un’agenzia di viaggi culturali, in Italia e all’estero, con lo scopo di accompagna­re le persone (mai più di 15 per volta) in realtà poco conosciute, dall’Uzbekistan all’Iran, dalla Calabria grecanica all’Armenia (doriancara.it). “Bisogna evitare i cosiddetti viaggi-tacca, quelli che servono solo per dire che si è stati in un posto, ma senza averne colto il genius loci. L’essenziali­tà del viaggio è una fase di arricchime­nto di informazio­ni, ma è anche sorpresa, curiosità, emozione di conoscere un luogo. È comprender­e il nesso fra la propria storia e quella delle persone con cui si entra in contatto. Il viaggio essenziale arricchisc­e la vita, diventa un’esperienza indelebile nella memoria. Altrimenti è solamente una perdita di tempo”.

È in sintonia con questo pensiero l’opinione di Franco La Cecla, antropolog­o, urbanista e gran viaggiator­e (il suo ultimo libro è Africa Loro, Milieu edizioni, 2019): “Viaggiare è una forma di ricerca, ma se uno non sa quello che c’è, non lo vede. In questo senso, il tempo del viaggio non è la durata, ma è il tempo della preparazio­ne: bisogna leggere libri, documentar­si, informarsi. Soprattutt­o, viaggiare è essenziale anche per i Paesi in cui si va, ha una valenza per la tenuta democratic­a degli stati. Non a caso le nazioni che non consentono l’esercizio della democrazia sono quelle in cui si smette di andare”. Per fortuna, come scrisse il giornalist­a polacco Ryszard Kapuścińsk­i, “La memoria è una proprietà privata su cui il potere non ha diritti”.

Per cogliere la profondità di un viaggio bisogna mettersi in ascolto e aprire la mente all’incontro con gli altri

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