Cappelletti e tortellini, che lotta gustosa.
Come si distinguono? Ecco il disciplinare del caplèt reggiano con ricette, indirizzi, botteghe
Nella patria della pasta fresca ripiena, è sfida aperta fra le città per la paternità del piatto simbolo. Il modo più sicuro per distinguere le diverse ricette? L’assaggio. Da Reggio Emilia a Ferrara, un itinerario fra ristoranti, botteghe e “scuole” dove imparare a prepararlo
Modena e Bologna si contendono la paternità del tortellino, Reggio Emilia celebra i caplèt (in città e collina ) e i caplét (nella Bassa), Ferrara esalta i suoi caplít, gli anolini sono a Parma (anolén) e a Piacenza (anvéi). Nomi diversi, quanto le forme e le dimensioni: medi, piccoli, piccolissimi; quadrati, rettangolari, in foggia di anellino o di cappello… Per non parlare del ripieno: crudo o cotto? Con quali carni? Il pane grattugiato ci vuole o è bandito? E il brodo? Di solo cappone o anche con manzo e gallina? In Emilia, terra d’elezione della pasta fresca ripiena, non solo ogni provincia o paese, ma addirittura ogni famiglia ha la sua ricetta speciale, spesso tramandata da generazioni. Difficile, quindi, stabilire quale sia l’interpretazione autentica del tortellino o del cappelletto. Almeno fino a quando una confraternita, un’associazione o un club decidono di depositare la ricetta principe. È quello che è successo a Reggio Emilia, dove il 16 novembre è stato depositato ufficialmente il “Disciplinare del cappelletto reggiano”, redatto dall’associazione costituita allo scopo di tutelare e valorizzare uno dei prodotti identitari della città e del suo territorio. Sempre qui, due anni fa, il progetto Save the Caplèt, nato dall’idea di due giovani creativi, ha preso forma con l’organizzazione di un primo corso per imparare a fare i cappelletti, che ha riscosso, complici Facebook e Instagram, un successo straordinario e inaspettato. Da allora non smette di sfornare corsi sempre esauriti e adesso Save the… si è allargato ad altre specialità reggiane, come l’erbazzone, i tortelli, le lasagne. Nella vicina Modena, poi, il tortellino diventa uno spettacolo emozionante dove il fare si unisce al dire, al racconto parlato, alle fòle. A proporlo, anche in questo caso, è una giovane, la direttrice artistica del Festival della Fiaba.
Qualcosa, insomma, sta cambiando. L’arte della pasta ripiena fatta a mano esce dall’ambito familiare, appannaggio, per lo più, di anziane rezdore. Diventa social. E di tendenza. Tanto che a Bologna c’è chi si è inventato il tortellino da passeggio e non è raro incontrare, nelle vie dello shopping, persone con in mano lo scatolotto fumante di Bottega Portici (bottegaportici.it).
I SEGRETI DI CHEF E REZDORE
Un vero revival che Fulvia Salvarani, presidente dell’Associazione del cappelletto reggiano e patronne, insieme al marito chef Gianni D’Amato, del ristorante Caffè Arti e Mestieri di Reggio Emilia, spiega così: “Fare i cappelletti è una forma di meditazione, una specie di rito dal potere rilassante. La ripetizione lenta di movimenti sempre uguali - riempire, piegare, mettere in fila - ha l’effetto di un mantra, un rimedio contro la stanchezza e persino la solitudine. Fare cappelletti fa stare bene. E rezdore, cuochi, nonne hanno il compito di insegnare quest’arte alle nuove generazioni: per salvaguardare non solo la memoria, ma anche il saper fare”. Salvarani non si ferma alla teoria e nel suo ristorante (come in altri dell’associazione), organizza corsi per insegnare i segreti dei cappelletti reggiani. A partire dal ripieno, che qui si prepara con tre tipi di carne, maiale, manzo e vitello, ed è cotto (a fuoco dolce e molto a lungo, prima di aggiungere Parmigiano Reggiano e spezie), a differenza di quel che si fa a Modena e Bologna, dove la farcia viene inserita a crudo nella sfoglia. La pasta è sottile e la chiusura non ha un foro centrale evidente, ma appena accennato o addirittura inesistente. Fissati i requisiti imprescindibili, ognuno, poi, apporta il proprio tocco personale. Lo stesso vale per il brodo: c’è chi lo preferisce con l’occhio (di grasso), chi completamente sgrassato. Fra loro, D’Amato. Nel suo locale i cappelletti sono piccolissimi - “in un cucchiaio devono starcene cinque o sei”, spiega lo chef - e una porzione ne conta un centinaio. In inverno sono serviti in brodo di manzo e cappone, in estate asciutti con spuma di Parmigiano Reggiano. Da applauso. Si accompagnano bene al Lambrusco e nella carta
dei vini figurano le etichette di piccoli produttori locali. Fra le specialità dello chef si apprezzano il Cubo di bolliti, carpioni, aria di Lambrusco, balsamico tradizionale di Reggio Emilia el’ erbazzone contemporaneo, il suo “piatto del Buon Ricordo”.
DORMIRE FRA ACETAIE E B&B
In centro città, in piazza Roversi (per tutti piazza del Cristo), fresca di restyling, si dorme nel b&b Vicolo Folletto Home, aperto dalla giovane e talentuosa chef Marta Scalabrini nell’attico di Palazzo Rangone, edificio del Quattrocento dove abita con Ivan Giglio, chef pure lui, compagno di vita e d’avventura gastronomica. Quattro camere e una vista magnifica sui tetti e sulla cupola della chiesa di San Giorgio. E, al piano terra, Vicolo Folletto Art Factories, la galleria dove ospitano opere di street art e fotografia. Voltato l’angolo, ecco il ristorante, Marta in Cucina, dove il cappelletto è servito in forma di amuse-buche di benvenuto. “È il nostro personale e divertito omaggio al pranzo della domenica di quando eravamo piccoli”, spiega la chef: “lo serviamo crudo, su una tavoletta di legno, in una piccola trappola riadattata, che noi chiamiamo ‘la vendetta della nonna’, perché ricorda quando i bambini rubavano queste delizie ancora crude dal tavolo di lavoro. La trappolina simboleggia la mano della nonna che talvolta riusciva a bloccare il piccolo furto afferrando quella del nipote”. Accostato al cappelletto, un altro classico della cucina reggiana: “il tortello di zucca, o quasi, fonduta di Parmigiano, zucca al vapore e spadellata, aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia, amaretto e salvia. E poi il cotechino in galera con lo zabaione al vino”. Nomi che evocano la storia di questo territorio, interpretato con passione, ricerca e innovazione. Non a caso il nuovo menu si chiama “Quel gran pezzo dell’Emilia” e vi si trovano la pasta rêša, ovvero passatelli al limone, brodo di cappone in gelatina di lambrusco, e, fra i dolci, Come una batteria di botti, nome che richiama i legni delle botti in cui nasce l’aceto balsamico tradizionale di Reggio Emilia.
La chef ha selezionato quello de Il Borgo del Balsamico, fra i migliori indirizzi per comprarlo, a Botteghe di Albinea, sulle prime colline. È il regno di Cristina e Silvia Crotti, che hanno trasformato l’antica arte del balsamico, praticata dal padre come un divertissement, in una vera e propria attività. Piccola, ma esclusiva, e con un approccio estetico del tutto nuovo nel settore. “Vestiamo i nostri prodotti come fossero profumi per comunicare la loro unicità”, spiegano. Le bottiglie sono sigillate con lavorazioni artigianali, legature antiche e ceralacca. Una galleria di vetri soffiati a mano, scatole colorate rivestite in materiali vellutati per proteggere il nettare prezioso prodotto secondo il disciplinare della dop e della igp. Ciò che rende speciale questo luogo è la possibilità di vivere un’esperienza sensoriale autentica: si visita l’antica acetaia nel sottotetto, con botticelle e tinelli del Sette e Ottocento, si fanno degustazioni e, da un paio d’anni, si può anche soggiornare in un luogo magico, denso di storia e di silenzio. Le Dimore del Borgo offrono tre camere, un appartamento nel rustico e quattro nuovissime stanze nella villa padronale, con ampio giardino all’italiana e un parco immenso dove passeggiare fra fiori e piante rare.
Nel centro del paese si fa incetta di cappelletti alla Salumeria Martelli, tempio della gastronomia emiliana dal 1965. A detta di molti sono i migliori della provincia e si possono scegliere addirittura secondo la “mano” di chi li prepara, anzi li chiude nel tipico abbraccio: quella di Roberto Martelli, figlio d’arte della storica sfoglina ora in pensione, quella della moglie Cinzia, cui si aggiungono, di tanto in tanto, quelle dei figli. “Il vero sfoglino”, ammette Cinzia, “è Roberto, cresciuto letteralmente con le mani in pasta. I suoi cappelletti hanno una chiusura più stretta e per questo sono più indicati per il brodo. La mia e quella di mio figlio è più larga e va bene per la versione asciutta. Non li mesco