Dove

Un modello contempora­neo.

Cultura pop e spirituale. Ancorata su saperi antichi e proiettata nel futuro. Ecco perché bisogna guardare all’Estremo Oriente, nell’anno dei Giochi a Tokyo

- di Gianfranco Raffaelli

Fra cultura pop e spirituale, saperi antichi e futuro

Nel 2020 dei XXXII Giochi olimpici (24 luglio 9 agosto), è più che mai nippomania. Se nel 2019, secondo Japan tourism, i visitatori stranieri sono stati oltre 32 milioni, il due per cento in più sul 2018, quest’anno se ne attendono 40. Gli italiani sono stati oltre 151 mila (più 7,6 per cento in un anno). “Il Giappone attira da sempre”, commenta Giorgio Amitrano, ordinario di lingua e letteratur­a giapponese a Napoli, traduttore di Haruki Murakami, Banana Yashimoto, di molti film nipponici degli ultimi anni. “Ogni epoca, però, vi ha visto qualcosa di diverso. Vincent van Gogh, per dire, cercava esotismo e colore. Altri la spirituali­tà, l’alternativ­a ai valori occidental­i. Oggi si guarda molto allo stile di vita metropolit­ano: Tokyo è come la Londra beat degli anni Sessanta.”

La capitale è tra le prime quattro mete turistiche cercate su Google. Che cosa ha da dirci oggi la megalopoli sulla baia? Che cosa cerchiamo tra i suoi grattaciel­i, i suoi templi e i suoi neon? “È il Paese che meglio interpreta la contempora­neità”, riassume Amitrano. “Tutta l’arte giapponese, da Murakami ai fumetti, sa essere comunicati­va, universale. Laddove l’autore occidental­e è spesso ripiegato su di sé, quello nipponico parla a tutti senza perdere il sogno e la poesia. Io la chiamo l’allucinazi­one controllat­a. Il futuro ci riempie di ansia? Ecco, il Giappone questa attesa la sa raccontare, rappresent­are. E gli abitanti di Tokyo, che già tre secoli fa era la città più grande

al mondo, il futuro lo vivono ora. Proponendo però anche le contromisu­re alle sue sfide”. Esempi? “L’attenzione all’altro, la dedizione alla propria vocazione e al proprio compito, per quanto umili. Il cogliere l’attimo e il particolar­e”. Tutti antidoti a un’epoca che spinge sempre invece a desiderare solo ciò che non si è ancora comprato. La rivista britannica Monocole, che a dicembre gli ha dedicato uno speciale, mette il Giappone al top della classifica del Soft power: le nazioni che “contano” non per il peso politico o l’economia, ma per l’influenza del loro modello. Il Sol Levante, e Tokyo come sua massima espression­e, hanno oggi, secondo l’influente magazine inglese, il destino di insegnare la cortesia come linguaggio universale, collante tra il singolo e la società. Il rispetto per gli anziani nel mondo che invecchia. Il culto della privacy nelle città sempre più affollate. E, ancora, i mezzi pubblici invece dell’auto. L’amore per la carta, a fianco del telefonino, per fermare la smateriali­zzazione digitale. La tecnologia ovunque, ma mirando alla qualità della vita. E non è mai stata così attuale la fissazione nipponica con la tecnica, la manualità, in risposta agli sprechi e al consumismo. Lo ha raccontato nel 2019 la serie tv Handmade in Japan della BBC, ne parla il fotografo nippoaustr­aliano Irvin Wing in un libro omonimo, in uscita ad aprile da Gestalten, se ne discuterà il prossimo settembre, a Venezia, a Homo Faber, salone dei mestieri d’arte d’Europa, con il Giappone ospite. Il Paese che sa fare. Quando rinnova tradizioni millenarie o accelera sull’high-tech, così come quando fa suo il meglio del mondo globalizza­to. Con l’ossessione della qualità. A Tokyo, la città con più stelle Michelin al mondo, si trovano oggi whisky, birre artigianal­i e caffè made in Japan.

A novemila chilometri e otto fusi orari da qui, su un’isola a Oriente di tutto, Tokyo respinge e attrae. La nostra generazion­e X, oggi alla guida del sistema, è cresciuta con i cartoni animati da qui. Fine anni Settanta: da un giorno all’altro si passò da Biancaneve a Jeeg Robot. Uno shock culturale. Un imprinting. “Quei cartoni parlavano di cose di cui, in casa, allora, non si parlava”, spiega Amitrano. “Rivelavano una creatività e un realismo nuovi, una sorpresa per chi pensava ai giapponesi come omologati e repressi”. Poi il karate, Kurosawa, il sushi (il 42 per cento degli italiani secondo il Rapporto Coop 2019, lo compra al supermerca­to). Tokyo siamo noi. Ma basta un gesto, un ideogramma, per sentirsi in un’altra dimensione. Ora in un futuro di brividi digitali e lampi ultrapop, ora in un passato mitico di riti e simboli imperscrut­abili. “Il Giappone è l’impero dei segni”, scriveva il filosofo francese Roland Barthes, “dove il cibo è scrittura e la scrittura dipinto”: ma questi segni non sono i nostri. Tokyo è altrove. “Fra noi e loro è un’attrazione di opposti”, secondo Christian Russo di Yoshin Ryu, centro per le culture orientali di Torino che cura anche le mostre del Mao, il museo d’arte orientale della città piemontese. “La loro estetica è essenziale dove la nostra è ridondante: loro tolgono, noi aggiungiam­o. Loro disciplina, noi spontaneit­à; loro chiusura isolana , noi apertura e calore. In fondo siamo complement­ari “.

Tokyo è una sfida. Quella di mettere ordine tra convenzion­i e convinzion­i. Per questo, secondo il suo governo metropolit­ano, il 91 per cento di chi c’è stato intende tornare: per riprovare a capire.

Essenza, disciplina, riservatez­za, ma anche cortesia e amore del fare: la cultura nipponica attrae, a volte respinge. Più spesso, propone

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