U N A N U OVA SPERANZA N E L L’ U R N A
Il 17 marzo si vota in ISRAELE. Uno dei più importanti scrittori del Paese spiega com’è stato, in questi anni, sentirsi stranieri nella propria terra
«Da quando è iniziata la guerra, ho la sensazione di non essere neanche qui», dice il mio vicino di casa dalle idee di sinistra, mentre il suo cane piscia sulla mia recinzione. «Cammino per strada e mi pare che le suole delle scarpe non sfiorino neanche lo schifo che c’è intorno. È come se levitassi a venti centimetri da terra. Non so se riesco a spiegarmi. Mi sento come un turista in un Paese straniero. È una sensazione bruttissima».
Non è la prima volta che sento parlare di questa esperienza: ritrovarsi improvvisamente stranieri nel proprio Paese. Più di un americano mi ha descritto una sensazione simile dopo che George Bush jr. è stato eletto per la seconda volta, mentre altri, all’estremo opposto dello spettro politico, raccontano di un’esperienza analoga in riferimento all’elezione di Barack Obama. La situazione in cui un cittadino preferisce un certo governo, ma deve accettarne uno diverso, è un fatto comune e normale in tutti i Paesi democratici, ma ci sono momenti, più rari e difficili, in cui un elettore sente che il governo in carica non solo non rappresenta le sue opinioni politiche, ma neanche lo spi
rito della nazione.
Nella storia recente dello Stato di Israele ci sono stati molti momenti di quest’ultimo genere, e si ha l’impressione che, con l’attenuazione della coesione sociale, si stiano ripetendo sempre più spesso, in modo sempre più intenso.
All’epoca degli accordi di Oslo, molti sostenitori della Grande Israele ritenevano che il governo di allora, con il suo piano di cedere ai palestinesi un territorio che loro, gli israeliani, avevano ricevuto in dono da Dio, stesse deviando dal mandato ricevuto. Questo senso di estraneità nei confronti del governo portò addirittura all’assassinio del primo ministro in carica. Un evento non meno traumatico per i sostenitori della Grande Israele fu il disimpegno da Gaza (20042005): in quell’occasione, molti di loro videro nell’esercito, inviato a evacuarli con la forza, una crudele armata straniera, non certo i difensori del loro popolo.
Ora, invece, sotto il governo più destrorso e razzista della storia dello Stato di Israele, tocca a una diversa fetta dell’opinione pubblica sentirsi poco o per nulla rappresentata, estranea alla propria classe dirigente politica.
Perfino il presidente Rivlin è stato critico con Netanyahu
L’etichetta usata dai leader di destra per descrivere questa fetta dell’opinione pubblica, che ha subito minacce e boicottaggi la scorsa estate, è quella di “sinistra radicale”. Ma questa definizione demagogica è ben lungi dall’essere corretta. Lo dimostra il fatto che il presidente di Israele, Reuven Rivlin, uno dei principali esponenti della destra israeliana, figura tra i critici più spietati dell’attuale governo e della via anti-democratica su cui ci sta conducendo.
“Radicali di sinistra”, perciò, non è una formula adeguata a descrivere tutte quelle persone per cui lo spirito degli attuali leader politici nazionali si starebbe allontanando da quello del popolo. Potrebbero essere definiti, più precisamente, “liberali” e “democratici”, perché ritengono che l’uguaglianza e la libertà di espressione siano elementi vitali per la moderna società ebraica, soprattutto alla luce della persecuzione e delle discriminazioni che il nostro popolo ha sofferto nel corso della storia.
Negli ultimi sei mesi Israele ha vissuto molti eventi che
hanno intaccato la sua connotazione democratica e liberale. A livello politico, durante l’operazione “Protective Edge” abbiamo sentito invocare, da parte del nostro ministro degli Esteri, un boicottaggio delle imprese arabe solo perché i loro proprietari avevano espresso solidarietà per le sofferenze dei civili a Gaza. Abbiamo assistito al provocatorio ingresso di famiglie ebree nei quartieri arabi di Gerusalemme Est e alla non meno provocatoria visita di un parlamentare della destra israeliana sulla Spianata delle Moschee. In ambito legislativo, sul tavolo della Knesset, il parlamento israeliano, sono arrivate diverse leggi molto controverse, fra cui spiccano per la loro gravità quella sull’immigrazione illegale e sulla ridefinizione di Israele come “stato nazionale del popolo ebraico”, entrambe fondate sulla discriminazione tra cittadini ebrei israeliani e coloro che professano fedi religiose diverse. Questa atmosfera bellicosa non regna, però, soltanto nei corridoi della Knesset.
Dopo il rapimento e l’omicidio dei tre giovani israeliani a Gush Etzion, nello scorso giugno, si è avuta un’ondata di crimini motivati da odio razziale, inaugurata dall’orrendo assassinio di un ragazzo palestinese, proseguita con le turbolente manifestazioni in occasione di un matrimonio fra un uomo arabo e una donna ebrea a Jaffa e culminata, lo scorso novembre, nell’incendio della scuola bilingue di Gerusalemme, che rappresentava uno dei più avanzati e toccanti esempi di coesistenza tra arabi ed ebrei in Israele.
Nulla più di una nuova campagna elettorale ha il potere di riportare con i piedi per terra il mio vicino di sinistra e il suo cane. Non può più nascondere la testa in un buon libro; sarà costretto a guardare in faccia la realtà e a mettere nell’urna la sua scheda in
consolatoria – e il romanzo che scava nelle trasformazioni criminali del Paese, abbondanti e ogni volta più rapide. Da sempre io sono attratto dal secondo genere, nel quale si fondono realtà e creatività. Per me, il lavoro dello scrittore è quello di attraversare il proprio tempo trovando gli strumenti per raccontarlo», spiega Carlotto.
Così, anche La banda de- gli amanti (e/o, 208 pagg., 15 euro) è ambientato a Padova, dove Carlotto è nato 58 anni fa, luogo-simbolo delle infiltrazioni malavitose più recenti ma anche di una particolare attitudine ai tradimenti coniugali, su cui Giorgio Pellegrini fonda la sua attività illecita. Con l’aiuto di complici ridotti in schiavitù, ricatta uomini e donne minacciando di rivelare il loro segreto inconfessabile, giungendo fino a rapirli e ucciderli con crudeltà.
«Ai tempi di Nordest (scritto con Marco Videtta nel 2005, ndr), tutti – dal governatore della Regione al patriarca di Venezia – sostenevano che parlare di mafie attive nel Nordest significasse esprimersi contro le genti venete. Ci fu un’insurrezione contro di noi. Poi, con il tempo, si è visto che i legami tra le organizzazioni criminali e alcuni ambienti dell’imprenditoria, della finanza e della politica non solo esistevano davvero, ma erano anche consolidati. Di colpo sono scomparsi i rimasugli della banda Maniero e della mala del Brenta e sono apparsi serbi, russi, kosovari e anche calabresi, che adesso dominano il territorio. Pochi giorni fa, a Padova, si è scoperto un patrimonio immobiliare di 130 milioni di euro intestato a un pensionato legato alla camorra. In questi ultimi venti anni il Nordest è diventato una terra di riciclaggio. Ma per riciclare occorrono complicità molto diffuse e ad alto livello».
Sulla sua strada, però, Giulio Pellegrini incrocia l’alligatore e la piccola banda di ex criminali dal sapore vintage che, con l’aiuto dell’ispettore Campagna, gli concedono di fuggire in Svizzera purché allontani la minaccia (e magari la riproponga in un prossimo romanzo).
«Pellegrini è un personaggio molto contemporaneo, che è frequente vedere dal vivo nelle aule dei tribunali. È feroce, senza scrupoli, senza moralità. Non avendo la capacità di sviluppare normali relazioni umane, si circonda di vittime, soprattutto donne, ed è molto intelligente, perché va alla ricerca di crimini sempre nuovi per raccattare denaro. Ha un solo problema: è un indipendente e, finché resterà tale, non riuscirà ad arrivare abbastanza in alto. L’alligatore, invece, appartiene a una vecchia generazione ormai estinta, per la quale la parola data ha ancora un valore: è un tipo un po’ Anni 50, che ho di nuovo voglia di raccontare».
«I lettori hanno influenzato la vita dei miei personaggi»
Del resto, 800mila copie vendute dei precedenti 7 titoli dell’alligatore, oltre a tre film tratti da altri romanzi, sono un patrimonio prezioso da coltivare, tanto più in un Paese come l’italia, in cui si legge pochissimo.
«In questi venti anni i lettori sono cambiati molto e hanno influenzato gli autori e la vita degli stessi personaggi», conclude Massimo Carlotto. «Solo da noi accade che i lettori consiglino agli scrittori quali casi seguire nei romanzi. Sono sempre più esigenti, competenti, pretendono che dietro ogni storia ci siano indagini accurate e analisi approfondite della realtà. E soprattutto cercano la novità nella scrittura: con questi lettori, un autore non si può mai adagiare».
« ORA S E R B I , KOSOVA R I ,
RUS S I E CA L A B R E S I S I STANNO DIVIDENDO IL T E R R I TO R I O »