GQ (Italy)

Sangue, sudore e follia

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Stravaccat­o sul banco degli imputati del tribunale di Filadelfia, il 25 febbraio 1997, John Eleuthère du Pont ascolta l’avvocato che perora la sua causa. Invano. Il viso segnato da un anno di carcere, la barba irsuta e i capelli unti, a 58 anni il milionario americano accusato dell’omicidio di Dave Schultz – campione olimpico di lotta libera (categoria 74 kg) ai Giochi di Los Angeles dell’84, ucciso con tre colpi di pistola – pare un vecchio smarrito. Cerca di passare per pazzo. «Paranoico e schizofren­ico», specifica la perizia psicologic­a. «Tossicoman­e e alcolizzat­o», dicono i conoscenti.

Poche ore dopo, la giuria lo condanna per l’omicidio dell’allenatore del “Team Foxcatcher”, una squadra di lottatori ripuliti, nutriti e alloggiati da John du Pont, a fine Anni 80, nella proprietà di famiglia di Newton Square. «La giuria gli ha riconosciu­to l’infermità mentale», racconta a GQ Mark Schultz, fratello della vittima e anche lui medaglia d’oro a Los Angeles (categoria 82 kg), «ma ha ritenuto che fosse in grado di distinguer­e il bene dal male». È la storia di questi tre uomini che racconta il film Foxcatcher di Bennett Miller, una bella sorpresa all’ultimo Festival di Cannes, nelle sale italiane in questi giorni.

Dall’assassinio sono passati 19 anni. Mark Schultz sopravvive: su Skype, la webcam rivela un cranio calvo e una corporatur­a tozza. «Aspetta, cerco qualcosa di decente da mettermi!», esclama. Poggia il portatile sul guardaroba, sceglie una camicia grigia taglia XXXL. Si sfila la maglietta e resta a petto nudo. Tira indietro la pancia: «In forma per un cinquanten­ne, no?».

Parla della sua vita. «Ho iniziato con la ginnastica. A 15 anni ero campione della California ma volevo di più. Volevo essere felice». Era un bambinone scolpito con l’accetta. La madre racconta che aveva gli addominali definiti già a 4 anni, ma era il ragazzino triste in fondo alla classe, quello che si rifugia nei film di Bruce Lee sognando di poter pestare chiunque. «Mi mancava la fiducia, avevo un vuoto da riempire». Sceglie la lotta perché vede Dave, di 17 mesi più grande, «fare il culo ai ragazzi che gli rompevano le palle. Per me, l’unico modo di essere felice era dare un sacco di mazzate al mondo intero».

Nel 1977 suo fratello, a 18 anni, è incoronato miglior atleta della California. «Ma era dislessico», confessa Mark, «e proprio quel disturbo lo spingeva ad allenarsi come un pazzo». Mark ha fatto da consulente a Channing Tatum, che lo interpreta in Foxcatcher. «Anche lui è dislessico, come Dave: insomma, un disturbo che nella vita può tornare utile...». Nel 1984, gli Schultz rappresent­ano gli Usa alle Olimpiadi di Los Angeles. Eppure Mark, sul gradino più alto del podio, non prova alcuna gioia. «Ero sollevato? Sì. Felice? Non so». A causa del boicottagg­io sovietico, per gli americani l’alternativ­a era: o vittoria o vergogna. Un incubo ancora lo perseguita: «Sogno di essere all’apertura dei Giochi e di non essere pronto. Ma devo lottare e vincere. Mi sveglio quando l’arbitro dà il via al match».

Nel 1987 gli Schultz sono in Francia, a Clermont-ferrand, per i campionati del mondo. Alain Bertholom, presidente della Federazion­e francese di lotta, ricorda con emozione: «Ho incrociato Mark, Dave e John du Pont. Era venuto con il suo aereo privato, ma a vederlo, con quella vecchia tuta sporca, sembrava un barbone».

Du Pont aveva molte passioni costose. Ma più di tutto gli piacevano gli atleti

John Eleuthère du Pont è il pro-pro-pronipote di Eleuthère Irénée du Pont de Nemours, che nel XIX secolo fece fortuna con la polvere da sparo. Bambino particolar­e, cresce nell’opulenza; i genitori divorziano quando ha due anni. A 18 anni, cocco di mamma spaurito, entra all’università di Miami dove si laurea in Biologia. Ha molte passioni, molti milioni. Fa costruire il Museo di storia naturale del Delaware per depositarv­i le sue collezioni, seimila uccelli impagliati e due milioni di conchiglie. Spende un milione di dollari per un francoboll­o del 1856, ma più di tutto gli piacciono gli atleti.

«Lui non è riuscito a diventarlo», racconta Mark Schultz, «così ha vissuto il suo sogno per procura. E la lotta allora era una terra vergine, in cui uomini privi di ogni sostegno si allenavano come dannati per battere i sovietici». Di lui esiste una foto in bianco e nero, all’epoca in cui non nuotava nella coca, in costume da bagno e felpa del Santa Clara Swim Club. Dietro alle pupille spente il vuoto, l’angoscia.

« A L LO R A S I A L L E N AVA N O T U T T I COM E PA Z Z I P E R B AT T E R E I S OV I E T I C I »

«Ricordo il nostro incontro come se fosse ieri, a un torneo del 1986», prosegue Mark. «Negli spogliatoi, si apre una porta e due occhi mi fissano, una faccia da matto con un taglio di capelli da clown. Aveva rimasugli di cibo fra i denti, puzzava di alcool, era strafatto: ciò che detestavo. Mi ha detto che gli piacevo, che voleva investire nella lotta». La maggior parte degli atleti contattati da du Pont accetta la pro- posta: stipendio, assicurazi­one sanitaria, una casa, tornei in tutto il pianeta, il miglior centro di preparazio­ne d’america. All’inizio lui, il mecenate, è invisibile. Poi si fa vivo ogni tanto. Poi arriva a ogni allenament­o. Poi consiglia, ordina, infuria e segue tutto quel che fanno.

« I lottatori lo arrapavano sul serio » , taglia corto l’ex allenatore della squadra francese Pino Massidda, passato per Foxcatcher. «Era sempre pronto ad accompagna­rne uno in sauna... Valentin Jordanov, bulgaro sette volte campione del mondo, era strapagato per allenarlo. Una volta mi dice che gli ha insegnato una nuova presa, che dovrei lasciarmel­a fare. Sono stato al gioco e da quel giorno non m’ha più rivolto la parola: ai suoi occhi ero una

«JOHN ERA U N V E L E N O, M A N I P O L AVA

L A V I TA D EG L I A LT R I E C I G I O CAVA » «Du Pont aveva rimasugli di cibo fra i denti, puzzava d’alcool, era strafatto. Lo detestavo

merda, l’allenatore francese incapace di lottare», continua Massidda. «L’ambiguità sessuale saltava agli occhi... Ricordo un americano, neanche tanto bravo: a du Pont piaceva e gli ha fatto costruire una casa. A Foxcatcher, cose simili potevano capitare».

L’ambiguità sessuale era evidente: i lottatori lo arrapavano un sacco

L’immagine che offre di Dave Schultz, invece, è quella di una persona straordina­ria e di un allenatore impareggia­bile. «Era “il professore”, come Alain Prost: vinceva con classe, il suo stile era arte. Un uomo semplice che dei soldi se ne fregava». Massidda è stato suo ospite nella sua casa di Foxcatcher. «Un ragazzo generoso, un po’ fricchetto­ne, che viveva a piedi nudi», sospira. «È stata una vera tragedia».

Quando Dave si è unito a Foxcatcher, nel 1988, Mark voleva andarsene. «Grazie a noi, du Pont si era guadagnato tanta credibilit­à. E io ho sudato sangue per la sua cazzo di squadra». Poi s’è imbattuto in un video girato dal “guru”: «C’era lui, che spiegava quanto fosse un allenatore eccezional­e e blaterava stronzate. Alla fine, una foto di me sul podio; poi l’immagine sfuma e sparisco dietro a du Pont... Era un veleno, un manipolato­re. Per lui tutto era un gioco. Si divertiva con la vita della gente».

« A VO LT E M I N ACC I AVA

G L I AT L E T I CO N U N A D E L L E

S U E P I S TO L E »

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