GQ (Italy)

Igbo power a Venezia

È uno degli uomini più influenti nel mondo dell’arte contempora­nea e a maggio sarà il primo direttore di origini africane alla Biennale. Nigeriano, di una delle etnìe più indipenden­ti, OKWUI ENWEZOR è accusato, nello stesso tempo, di guardare con ecce

- Testo di ROXANA AZIMI Foto di JUERGEN TELLER

Okwui Enwezor è dappertutt­o. Alla Biennale di Kochi, in India, il 18 dicembre scorso. Qualche mese prima a quella di Gwangju, in Corea del Sud. Oggi il prossimo commissari­o della Biennale d’arte di Venezia è alla Haus der Kunst di Monaco di Baviera, che dirige dal 2011. Questo luogo austero e glaciale, la cui architettu­ra marziale fu concepita da Hitler, è attualment­e uno dei musei europei più accreditat­i, e il retroscena storico non è privo di interesse se si considera che l’attuale responsabi­le ha doppia nazionalit­à, nigeriana e americana.

Se l’edificio intimidisc­e, Enwezor ipnotizza: voce calda che soppesa e assapora ogni parola, sguardo pacato da vecchio saggio a soli 52 anni. «Okwui è Kaa, il serpente del Libro della giungla », dice Francesco Bonami, suo amico e collega. «Ha un eloquio e un sorriso che incantano. Quando ti congedi da lui può capitare di non ricordare di cosa ha parlato, ma il suo fascino continua ad agire».

A 18 anni va a New York, a 35 dirige DOCUMENTA

Dire che questo dandy – abito firmato, gemelli ai polsini, scarpe lucidissim­e – salta all’occhio, in un ambiente così solenne, è un eufemismo. Enwezor ammette che Monaco non è l’ambiente più congeniale per un “afropolita­no” abituato alle geografie meticciate. Ha tentato di svecchiare un ambiente culturalme­nte troppo uniforme: in tre anni, ha esposto più artisti neri di quanti se ne siano visti al MOMA in venti.

Tanta strada, visto che la breccia extra-occidental­e aperta dal predecesso­re belga Chris Dercon aveva suscitato aspre critiche. «Mi rimprovera­vano una “programmaz­ione Unesco”, troppo orientata sul Terzo Mondo», ricorda Dercon. Quando al suo posto arriva Enwezor, la stampa tedesca si scatena. Lui, d’altronde, fa ben poco per farsi amare. Per quanto assicuri che la Germania gli ha dato molto, mantiene la residenza principale a Brooklyn. L’ex compagna, l’arte-terapeuta Muna El Fituri, e la loro figlia quindicenn­e vivono a Manhattan. In più, ha trascurato lo studio del tedesco e le regole della notorietà.

Che gli rivolgano critiche o compliment­i, Enwezor, a metà fra stoicismo e orgoglio, mantiene il riserbo. Di essere orgoglioso, comunque, avrebbe tutte le ragioni. È il secondo curatore al mondo, il primo africano, cui sia riuscita la doppietta: nel 2002 è stato direttore di DOCUMENTA – rassegna quinquenna­le dell’arte contempora­nea di Kassel, in Germania, che rappresent­a la consacrazi­one per un curatore – e dal 9 maggio dirigerà la Biennale di Venezia.

Per comprender­ne fierezza e radici spirituali occorre tornare alle sue origini nigeriane. Igbo, per essere più precisi. Gli Igbo sono una delle tre principali etnie del Paese. «Gente che si dà da fare, indipenden­te, che riesce in tutto ciò che si prefigge», dice Victor Ehikhameno­r, pittore e fotografo di etnia diversa. Indipenden­ti al punto di tentare la secessione che diede luogo, nel 1966, alla guerra del Biafra. «Non chiedono il permesso di parlare né vogliono che si parli a loro nome», spiega Chika Okeke-agulu, docente di Storia dell’arte a Princeton. «Arroganza? No, loro pensano che l’individuo sia padrone del proprio destino. Okwui non ha mai avuto paura dell’autorità, quale che fosse».

Se alla predestina­zione etnica si aggiunge la ricchezza della famiglia – il padre ha fatto fortuna con legname e

« È COM E I L P I TO N E DEL LIBRO

DELLA GIUNGLA»

subappalti vari – si capisce l’inossidabi­le fiducia in se stesso di Enwezor. Una corazza che si è rivelata molto utile quando, nel 1982, vestito come un principe, parte per andare a studiare a New York. Ha 18 anni e il presentime­nto di un grande futuro. Emigra, ma senza complessi. « Mia madre mi disse: “Non dimenticar­e, quando mangerai alla tavola dei bianchi, che quel che ti servono non è pene di elefante”», sorride. Come dire: nulla hai da invidiare ai wasp.

«Curo mostre per dar voce a un popolo frustrato»

Senza rinunciare alla superbia, Enwezor frequenta gli ambienti letterari e vive come un animale notturno. Va alla ricerca di sé, sogna di diventare giurista dopo la laurea in Scienze politiche, recita sue poesie nell’east Village. La famiglia lo mantiene, ma lui non si considera un privilegia­to: «Nessuno m’ha inventato».

L’incontro con lo scultore Glenn Ligon, nel ’91, lo scaraventa nel calderone dell’arte. Non dell’arte purchessia, niente art pour l’art per chi invoca quale padre spirituale l’anti-colonialis­ta Frantz Fanon. Per Enwezor l’atto creativo non può che essere espression­e della nostra lettura del mondo, con le sue complessit­à e nella sua globalità. Ma è perlopiù dalla dimensione locale – l’africa – che trae ispirazion­e. Per promuovern­e l’arte contempora­nea, nel ’94 lancia il semestrale Nka e si circonda di intellettu­ali di alto profilo come Chika Okeke-agulu e Salah M. Hassan, della Cornell University.

La rivista viene letta da curatori influenti, fra cui lo spagnolo Octavio Zaya, appena reclutato dal Guggenheim Museum per allestire una mostra sull’arte africana contempora­nea. Dopo un solo numero, Enwezor viene ingaggiato come commissari­o di quella che diverrà In/sight, collettiva di 30 fotografi africani al Guggenheim. Una partenza folgorante dovuta tanto al carisma quanto alla sua prosopopea, come Zaya confessa al Wall Street Journal: «Era sicuro di sé, estremamen­te diretto ed era impossibil­e chiudergli il becco».

Se Enwezor si improvvisa curatore di mostre («senza mentore né mecenate», tiene più volte a precisare), è per dar voce alle frustrazio­ni di un popolo. «Nei musei occidental­i, l’unico ruolo possibile per l’africano è quello di spettatore, mai di attore», dice: «È il bambino che guarda il negozio da fuori e si domanda come sfondare la vetrina».

Non c’è rischio, dunque, che soccomba ai miraggi made in Usa. «Ci si accanisce con questa ambizione di assomiglia­re all’occidente. Ma senza la Tate Modern la vita è meno interessan­te? C’è davvero bisogno di un Guggenheim ad Addis Abeba?». E non c’è neanche il pericolo che Enwezor confini l’arte africana in un ghetto o che ci si faccia rinchiuder­e. La sua attenzione è rivolta anche a Europa dell’est e Medio Oriente.

Enwezor è prima di tutto un ricercator­e, erudito ed eclettico, ma anche un affabulato­re che ama raccontare storie. A Venezia, per tutta la durata della Biennale, farà leggere Il Capitale di Marx «come nell’akhand Path dei sikh, la pratica della lettura dei testi sacri senza interruzio­ni». Altri reciterann­o L’opera da tre soldi di Brecht, testi del nigeriano Wole Soyinka, i canti dei lavoratori delle piantagion­i.

Da buon griot, è bravo come pochi ad ascoltare gli artisti. Lo scultore Barthélémy Toguo, che ha invitato a Venezia, vede in lui una specie di allenatore che «ti sfida, senza dare ordini». Metodi che talvolta possono apparire un po’ rigidi, all’americana. «Non lascia tanto spazio alla spontaneit­à», taglia corto un curatore. «È molto organizzat­o». E correttiss­imo, dal punto di vista politico. Dovesse schierarsi, propendere­bbe più per Martin Luther King che per Malcolm X. Christine Macel, conservatr­ice al Centre Pompidou di Parigi, dice: «Okwui sa che occorre adattarsi a un certo sistema per far passare il messaggio; sa che i gesti iconoclast­i possono risultare inutili, pur se giustifica­ti».

La sua risposta alle critiche: sarà una Biennale meticcia

Ha appena 35 anni quando, nel 1998, riceve via fax all’art Institute of Chicago, di cui è curatore, l’offerta di dirigere DOCUMENTA a Kassel. È sorpreso, esita: «Nessuno sopravvive a DOCUMENTA, nessuno rifiuta di dirigerla». La posta in gioco è colossale: offrire una visione personale dell’arte che faccia epoca. Un aspetto della sua edizione lascia il segno: le grandi “piattaform­e di discussion­e” a Berlino, Lagos, Delhi e sull’isola di Sainte-lucie. «Parte del potere dell’occidente deriva dal considerar­si il centro del mondo», dice. «Basta continuare a dire che “occorre moltiplica­re i centri”. Bisogna farlo».

Presenta 15 artisti africani, dieci anni prima ce n’erano solo due. La critica, però, stronca la sua vena politica e la scenografi­a troppo asettica. « Non ha fatto una piega » , ricorda Carlos Basualdo, che lavorava con lui. «È un grande scettico che pondera ogni cosa». E un lavoratore infaticabi­le: «Enwezor non ha cambiato molto la percezione della scena africana, ma ha influenzat­o il modo in cui i commissari delle biennali concepisco­no il lavoro e il mondo», sintetizza Chika Okeke-agulu.

Per i detrattori, è diventato l’alibi di un Occidente che l’avrebbe legittimat­o per meglio ignorare un intero continente. «Ditemi il nome di un solo africano che più di me abbia aperto nuove vie e dato più visibilità agli artisti africani», obietta. «No, non sono il cavallo di Troia dell’occidente in Africa».

Naturalizz­ato nel ‘97, è tanto americano quanto africano. Forse più americano che africano. «Enwezor cerca di superare gli stereotipi culturali e ideologici», osserva l’artista inglese Isaac Julien. «Non viene dall’occidente ma ne fa parte a pieno titolo». Più che della Nigeria, visto che ci torna solo una volta all’anno. «Non ho bisogno della terra per pensare alle mie radici», ribatte.

Altra critica, la scarsa collaboraz­ione con i curatori afroameric­ani. «Prendete Denzel Washington: non recita in film qualsiasi, solo nei blockbuste­r », attacca Sylvester Okwunodu Ogbechie, storico dell’arte all’università della California. «Come lui, Enwezor, ormai una star internazio­nale, evita curatori che non considera al suo livello». Infatti a Venezia sarà da solo ai comandi.

«È la persona giusta al momento giusto», sostiene Bonami. «Per l’italia, l’africa significa immigrazio­ne ma anche importanti scambi economici». Enwezor, con leggendari­a sicumera, ha accolto l’incarico senza stupore. Sa di essere stato scelto per smuovere le acque. L’edizione 2013 della Biennale aveva guardato ai margini; lui intende presentare nomi noti, ma in funzione di un obiettivo politico. Il titolo che ha scelto, All the World’s Futures, è eloquente. Si tratterà di meticciato e pluralità, delle zone grigie della globalizza­zione. Temi che conosce alla perfezione.

«Chi ha fatto più di me per gli artisti africani? Non sono il cavallo di Troia dell’occidente» «NON MI SERVE LA TERRA PER PENSARE ALLE MIE RADICI»

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