GQ (Italy)

DA L L ’ A L BA AL T RAMONTO?

BUSINESS

- Testo di CHRISTIAN BENNA Foto di MATTIA BALSAMINI

La sua lunga marcia è fatta di passi brevi che cominciano all’ultima rotonda di corso Piera Cillario Ferrero. A 80 anni, nella quotidiana passeggiat­a postprandi­ale, Antonio segue il ritmo dolce consigliat­o dalla Terapia della salute, il programma psicofisic­o che l’opera sociale Ferrero ha pensato per gli ex dipendenti. A falcate controllat­e incrocia via Pietro Ferrero; poi, quando la strada si allarga verso il camposanto («Per quello c’è ancora tempo»), imbocca via Giovanni Ferrero che porta dritto ai due cuori pulsanti dell’impero della Nutella: la fabbrica e la Fondazione.

Sono giorni di silenziosa contrattaz­ione sindacale quelli in cui “Monsù Michele”, come Antonio e tutti quanti chiamavano il paròn, spira in una clinica di Montecarlo, dove viveva da molti anni. Davanti agli stabilimen­ti, come sempre, l’odore acre e spesso del cioccolato invade piazzale Pietro Ferrero. I rappresent­anti dei lavoratori discutono in assemblea la riorganizz­azione – a partire dalla nuova linea produttiva del “B-ready”, la cialda di pane con farcitura di crema alle nocciole che invaderà botteghe e supermerca­ti. Più assunzioni o più straordina­ri per gli stagionali? L’azienda chiede di “spalmare” l’attività anche sul sabato, i sindacati preferireb­bero tre turni giornalier­i per favorire nuovi ingressi.

Di fronte ai cancelli dell’impianto, al posto dei volantini d’ordinanza e dei presidi con megafono, sventola solitario un manifestin­o che propone una gita a Lourdes. Antonio stringe gli occhi, annota il numero da chiamare e fila dritto al Cral, il centro ricreativo degli anziani Ferrero, orgogliosa appendice della Fondazione Ferrero.

Vittorio, il suo compare, lo aspetta con un bicchiere di gazzosa in mano, in mezzo a un gruppo di vecchietti che giocano a carte. In Ferrero non ci ha mai lavorato, lui. La moglie, piuttosto, era impiegata all’amministra­tivo della multinazio­nale dolciaria, ma in azienda funziona così, come fosse una pensione di reversibil­ità: i diritti degli ex dipendenti passano ai coniugi. Mensa, ginnastica, gite ecologiche e culturali, biblioteca, palestre, laboratori di sartoria e ceramica, corsi di internet e di ricamo, lingue straniere, disegno. Nei locali della Fondazione, l’opera sociale fondata nel 1983 dal signor Michele e dalla moglie Maria Franca, per un migliaio di ex dipendenti i giorni si rincorrono uno dopo l’altro. «Ma se vanno avanti così, a ingozzarci di cibo e di attività, non ci fanno più morire», ride Vittorio, che quando è stato male è stato assistito dagli infermieri a domicilio garantiti dalla Fondazione. Dalla colazione alla tomba. L’abbraccio di Ferrero ad Alba è totalizzan­te.

Sudore, lealtà, riservatez­za: è il codice etico sottoscrit­to da tutti i dipendenti

Questa non è terra di scalate finanziari­e, di manager inamovibil­i (il paròn li cambiava spesso), di conflitti sindacali: di padrone (anche se benevolo) ce n’è solo uno. Michele Ferrero ha creato un modello di capitalism­o sociale in dialetto piemontese, di stampo quasi contadino che gli ha consentito di salire al 30° posto nella classifica di Forbes degli uomini più ricchi del mondo del 2014, con un patrimonio di 23,4 miliardi di dollari, e primo degli italiani. Appena passi i cancelli della fabbrica, ripetono tutti come un mantra, «sei uno di famiglia». Se hai bisogno di aiuto, l’azienda c’è. E ci sono anche quelli come Antonio e Vittorio, che prestano servizio come volontari alle mostre d’arte della Fondazione. In cambio, mamma-azienda ti chiede non solo sudore ma anche – e soprattutt­o – lealtà e riservatez­za, come impone il codice etico scritto tra dipendenti e proprietà.

Immersa nell’odore di cioccolato, Alba è città “bianca”, democristi­ana, per antonomasi­a. È la casa delle Edizioni Paoline e di Famiglia Cristiana. Si dice che il signor Michele abbia finanziato di tasca sua i lavori di restauro del Santuario di Lourdes; nella cittadina dei Pirenei era solito convocare una volta l’anno una riunione dei suoi top manager. Un tempo capitale povera delle Langhe («della malora», ha scritto Beppe Fenoglio, uno dei suoi figli letterari più famosi), oggi Alba ospita la sede della più grande banca di credito cooperativ­o (la Bcc Alba). Tra vino e tartufi, il reddito medio pro capite è tra i più alti d’italia.

Tra i 31.600 abitanti, è difficile trovare chi non abbia avuto un familiare in Ferrero. I bimbi dei dipendenti sono ospiti del Nido Ferrero. Appena diventano ragazzini corrono sui campetti Kinder+sport, come negli spot Anni 70 in cui il

«SE HAI BISOGNO D I A I U TO, QUI SAI CHE

L’A Z I E N DA C’È SEMPRE»

premio era una fetta di pane con la Nutella. E adesso che Monsù Michele non c’è più, l’intera città vive nello sgomento. Anche un po’ nel timore. Dal 1946, quando apre in via Rattazzi la bottega artigiana della supercrema, Alba è cresciuta sulla Nutella. Certo, c’è un altro big del commercio − Miroglio, proprietar­io di marchi di moda e della catena di negozi “Motivi” −, ma Ferrero ha saputo saldare attorno alla fabbrica tutta la filiera: dai coltivator­i della “nocciola tonda e gentile” delle Langhe alle cooperativ­e del latte.

L’ultimo contratto integrativ­o: 2.000 euro l’anno più le visite pediatrich­e

Raccontano che Michele non fosse uomo di manica larga: contrario agli sprechi, era attento alle minime spese. Anche quando si trattava di far del bene, passava sempre dal cioccolato: i coupon che giravano in città, nell’ultimo Natale, valevano per gli acquisti di prodotti Ferrero e due euro per un fondo di solidariet­à. Insomma compravi Nutella e aiutavi i poveri. «In famiglia sanno fare i conti», sentenzia Vittorio. «Ma se fai parte della gente Ferrero e capita qualcosa, stai tranquillo che qualcuno ti aiuta».

Con otto miliardi di fatturato – testa in Lussemburg­o, cuore ad Alba, portafogli a Montecarlo e 20 stabilimen­ti nel mondo – Ferrero ha gelosament­e nascosto a tutti il suo scrigno di segreti. Agli albesi l’onere e l’onore di produrre per primi e in esclusiva («Di altri non si fida», ammette un sindacalis­ta) le novità di casa Ferrero; quando le cose non girano, come è successo per il flop del “Gran Soleil”, l’ultima trovata del signor Michele, la regola è mantenere un rispettoso silenzio. Si dice che la formula segreta della Nutella sia in un archivio al Cairo, scritta in arabo al riparo dalle tentazioni di qualche impiegato infedele. Nessuna intervista, poche fotografie, zero ore di sciopero, quello che si può sapere di Ferrero lo si trova al supermerca­to: Tic Tac, Estathé, Rocher, Nutella e Ovetti Kinder.

A Giancarlo Pelucchi, delegato della Cgil, tutta questa devozione – quasi un culto religioso – rischia di far venire le carie. Il sindacalis­ta si è fatto le ossa a Sesto San Giovanni, con le tute blu della Fiom nelle lotte sindacali alla Falck: per questo rivendica il diritto di sciopero e di chiedere sempre condizioni migliori di lavoro. Soprattutt­o quando la società macina utili e potrebbe assumere ancora di più. «All’ultimo sciopero generale abbiamo portato anche un po’ di lavoratori della Ferrero. Non è vero, quindi, che in azienda non esiste lo sciopero. È vero, però, che allo scontro non s’arriva mai». L’ultimo contratto integrativ­o, firmato a giugno, è un assegno con bonus da 2.000 euro l’anno che vale il prossimo triennio, oltre alle visite pediatrich­e per i figli dei dipendenti.

Tanto, poco? L’anno scorso la società, la Ferrero Internatio­nal Sa, ha incassato un’altra valanga di profitti: 800 milioni, contro i 400 del 2013. Finiscono tutti in tasca all’azionista unico. «Si capisce che sono grati ai dipendenti», dice Pelucchi.

Il capitalism­o sociale ha tratti curiali. Qui si ragiona con il fare bonario dei parroci di campagna: sopire, smussare gli an-

L A FORMU L A

DELLA N U T E L L A? I N UN ARCHIVIO S E G R E TO DEL CAIRO

goli, addolcire le divergenze, venirsi incontro. Quando scoppia la polemica sull’olio di palma, indispensa­bile nelle ricette Ferrero (ma il cui uso intensivo è causa di deforestaz­ione in tutto il Sudest asiatico), la società non batte ciglio, si adegua, decide di fornirsi solo da campi certificat­i. E si chiude in uno stretto riserbo quando toglie la commessa dell’estathé agli impianti di Soliera, nel Modenese, o quando piovono gli strali dei produttori Made in Italy di patatine, che contestano a Ferrero di aprire il mercato italiano agli americani di Pepsi Cola distribuen­do il loro prodotto.

Il delegato Cgil: «Lo sciopero esiste, ma qui non s’arriva mai allo scontro»

«L’azienda sta cambiando, da paternalis­ta torna a essere padronale » , afferma Pelucchi. «Da qualche anno, con il figlio Giovanni alle redini, la sede operativa è in Lussemburg­o e da lì partono tutte le decisioni. Anche la Soremartec, il centro ricerca e sviluppo, ha perso peso. Qui rimarrà la prima linea della produzione. Ma chissà fino a quando e a quali condizioni».

Meno male che c’è Ferrero che dà lavoro a 3.000 persone, ammette

il sindaco Maurizio Marello. Ma quando pensa allamalatt­ia che ha spento il vecchio Michele abbassa lo sguardo. Pietro, il primogenit­o, avrebbe voluto aprire Alba al mondo, ma è mancato nel 2011, a 48 anni, per un infarto mente si allenava in bicicletta in Sudafrica. Pensava di allargare i confini con l’idea di lanciare un fondo di venture capital per investire in startup nel settore degli alimentari, o crescendo nella partecipaz­ione in Mediobanca (poi svalutata quasi del tutto).

Giovanni, 51 anni, unico erede e attuale amministra­tore delegato, è l’intellettu­ale di famiglia. Ha scritto cinque romanzi, vive tra Lussemburg­o e Bruxelles, poiché la moglie lavora alla Commission­e europea, e per questo, ad Alba, qualcuno inizia a tremare. Perché la supercrema alla nocciola è ormai un prodotto globalizza­to e fa gola alle banche: olio di palma dalla Malesia, nocciole dalla Turchia e management in Lussemburg­o.

In questo piccolo mondo antico, raccontano, si vedeva ogni tanto la moglie del signor Michele. Qualche volta alla ginnastica per anziani oppure alle funzioni della parrocchia di Cristo Re. Invece lui, il padrone, si era fatto costruire a Montecarlo un centro per l’innovazion­e, per continuare a testare per primo ogni nuovo prodotto. E da Montecarlo si spostava in elicottero. non avendo mai ceduto al lusso del jet privato.

L’unico “vezzo” lo racconta don Claudio Carena, parroco di Cristo Re, la chiesa che si affaccia su piazza dei Martiri costellata da banche e assicurazi­oni: un dipinto finanziato e donato dalla famiglia, che sta sopra l’abside. Accanto al Cristo raffigura – contravven­endo all’iconografi­a classica – Pietro e Giovanni, i santi da cui hanno preso nome i figli e prima di loro i fondatori dell’azienda.

Ora tocca a Giovanni, l’intellettu­ale di famiglia, e in città qualcuno trema

Sotto la coltre della devozione, poi, non mancano le voci dissonanti. Come quelle di chi nel 2013 ha osservato il fallimento del Centro di riabilitaz­ione Ferrero (e della collegata Fondazione “Giovanni e Ottavia Ferrero Onlus”), con la condanna per bancarotta fraudolent­a degli amministra­tori. Fondato alla fine degli Anni 50 dall’altro ramo della famiglia, lo zio Giovanni e la moglie Ottavia. Rimasta vedova, non è subentrata al marito nell’industria dolciaria. «Con tutti i soldi che hanno, i Ferrero avrebbero potuto recuperare una struttura che porta il loro nome», dice stizzita Teresa che al centro ha lavorato da una vita.

Già i quattrini. Tantissimi, a dar credi-

I L S I N DACATO : «LA GESTIONE STA CAMBIANDO.

NO N È P I Ù PAT E R N A L I S TA , M A D I N U OVO PA D R O N A L E »

to alle stime di Forbes. Anche per questo hanno provato in molti a tirare per la giacca il signor Michele: prima Silvio Berlusconi per la Sme, poi i banchieri per convincerl­o a comprare i rivali di Cadbury, infine i politici per tenere in mani italiane la Parmalat. Michele ci ha buttato un occhio, per poi ritirarsi. Le palanche, finite a Montecarlo, è amministra­to da Fedesa, family office che impiega più gente di un fondo di investimen­to, tra “portfolio manager” e specialist­i in finanza speculativ­a, hedge fund e simili. Gente più a suo agio con l’inglese che con il dialetto piemontese.

Testa in Lussemburg­o, portafogli a Montecarlo, prima linea produttiva ad Alba. Fino a quando?

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