IL QUESTIONARIO DI CHARLES DE GAULLE
ze, ballerini, spacciatori, rapper, modelle e skateboarder che venivano essenzialmente per una ragione: ballare. Indipendentemente dal genere o dall’epoca alla quale apparteneva il pezzo, se era forte, la gente ballava. Con i brani di Uptown Special ho voluto catturare la sensazione di quelle serate».
La sua immagine mai sopra le righe – snob inglese di famiglia ebraica con mamma scrittrice, nato ricco e fortunato – si è delineata soprattutto sul successo di produttore, nonché amico e confidente di Amy Winehouse, esperienza che lo ha segnato profondamente. Eppure non ne ha scalfto l’essenza: un divo diverso, laconico e sfuggente.
Un disco di retro soul che ci riporta all’afro della fne degli Anni 70. Sono questi i suoi riferimenti stilistici?
«La mia prima passione è stato l’hip hop. Grazie alle passioni di mio padre ho ascoltato molta black music durante l’adolescenza. Da bambino sognavo di diventare un batterista».
Solo una scelta musicale?
«Non lo è, sono un fan della grande euforia dance che sconvolse New York e conquistò il mondo a metà degli Anni 70. Club come il Loft, il Tenth Floor, il Flamingo, il Gallery, il 12 West, il Paradise Garage e il Saint divennero i templi della disco culture. Fu nei club gay underground di New York – dove si usavano droghe, si faceva sesso e si ballava tutta la notte – che il fenomeno prese piede. Solo che io sono arrivato molto dopo tutto questo, però ho avuto la fortuna di vivere l’epopea dell’hip hop».
L’aneddoto più divertente intorno al disco?
«Incontrare Keyone Starr. Cercavo qualcosa che mi ri- portasse alle radici della musica afroamericana, così un giorno entro in una chiesa di Jackson, Mississippi, e mi trovo davanti questa giovane donna nera, incredibilmente bella, occhi grandi, una luce particolare. Mi ha colpito molto: mentre tutti desiderano passare per i talent show, lei mi ha detto che stava cantando per Dio, nel coro della chiesa, e non sapeva dove registrare la sua voce».
Momenti diffcili, invece?
«Stavo finendo di lavorare
al singolo
con Bruno Mars quando ho sentito un botto terribile nell’altra stanza. Mi sono precipitato e ho trovato lo schermo del computer in fumo: era esploso. Allora abbiamo deciso di registrare tutto su nastro, come si faceva una volta, solo che per ottenere un buon prodotto lo abbiamo provato 50 volte!».
La dedica a Amy Winehouse «Era responsabile al 100%»
La accusano di aver tradotto il vecchio funk in qualcosa di molto pop, anche troppo. Come se James Brown fnisse in un calderone pronto per le classifche. Pensa di doversi difendere?
«C’è chi dice che Pharrell Williams sia un impostore e chi lo adora; c’è chi pensa che Madonna sia una vecchia bollita e chi crede sia l’unica icona femminile degna di attenzione. La stessa cosa capita a me. Qualcuno dice che sono un mestierante e avrà le sue ragioni. Io mi sento un musicista sincero».
Quanto le manca Amy Winehouse?
«Dedico questo disco a lei, che mi manca almeno quanto la sua visione del lavoro. Era un talento puro e responsabile al cento per cento».
MA I S OP R A L E R I GH E , È U N T I P I CO INGLESE, N ATO R ICCO E F O R T U N ATO