Forever young
MARLON BRANDO
«L’unica ragione per cui rimango a Hollywood è che non ho il coraggio morale
di rifiutare i soldi»
«Credete che non sappia che cosa vi accade? Avete bisogno di me per una trasfusione. Perché il sangue è diventato polvere e vi ha occluso il cuore. È solo nel mio mondo che voi potete respirare», recita Marlon Brando in Don Juan Demarco - Maestro d’amore, di Jeremy Leven.
Solo lui poteva pronunciare queste parole. Solo lui poteva farlo con autorevolezza. Siamo nel 1994, Marlon Brando ha ridotto da anni le sue apparizioni fuori e dentro al set, alimentando il mito di sé. Annuncia il ritiro, poi torna, poi sparisce di nuovo. Eppure nessuno lo dimentica. Elton John scrive per lui Goodbye Marlon Brando. Icona, mito, fantasma. Esattamente come Marilyn, che però è morta davvero. Nessuno prima di Marlon Brando è riuscito a diventare icona in vita. Lui ci riesce cristallizzando se stesso in un eterno presente di giovinezza e successo. Ferma il tempo dello schermo, mentre quello della vita reale avanza. Ferma il ragazzo in canottiera – quello di Un tram che si chiama Desiderio, di Elia Kazan, del 1951 – che ha imposto un modello maschile nuovo: anticonformista, brutale, ma anche sentimentale.
Ferma Johnny il ribelle – ne Il selvaggio di Laslo Benedek, del 1953 – che alla domanda «Contro chi vi ribellate?» risponde «Contro di voi».
Giacca di pelle nera, occhiali scuri, e soprattutto una moto, una Triumph 6T Thunderbird, Marlon-johnny diventa l’immagine di una generazione. Di più: è il precursore del ’68.
Contro chi vi ribellate? Contro di voi. Dove “voi” sono tutte le regole, il conformismo, il sistema.
Vuole controllare il dolore. E si fa circoncidere senza anestesia
Il Marlon Brando de Il selvaggio diventa immediatamente manifesto di un’epoca e di una generazione che ribolle: «Si va, e via: il sabato ci si trova assieme e si va fuori. L’importante è scappare, andare a tutto gas ogni tanto».
La caduta è parte necessaria alla mitologia di questo maschio, di questa gioventù ribelle, in quanto realizzazione della forza primordiale: resistere. Nella resistenza sta l’eroismo. Ecco dunque che anche fuori dalle scene Marlon alimenta l’immagine dell’eroe. Persino nelle questioni più intime e quotidiane: decidere di farsi circoncidere e chiedere al medico di essere operato senza anestesia. La sua vita è una continua dimostrazione che il dolore può essere controllato, o almeno lui, Marlon Brando, può. Così come il fallimento. Gli anni di flm mediocri non lo piegano. Qual- cuno dice che Marlon Brando è fnito. Sbagliano. Rinasce negli Anni 70, per l’esattezza resuscita. Resuscita Marlon il selvaggio, il ribelle, proprio lui, l’icona: con Il padrino di Francis Ford Coppola, Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e Apocalypse Now, ancora di Coppola.
Otto volte candidato all’oscar che vince due volte, l’ultima mandando un indiano a ritirare la statuetta al suo posto, come gesto di protesta contro le ingiustizie subite dai nativi americani. I suoi autograf valgono talmente tanto che assegni frmati da lui non vengono mai incassati, più prezioso l’autografo dell’assegno.
E intanto: undici fgli (sedici, tra naturali e adottivi, tutti menzionati nel testamento), tre mogli, centinaia di amanti, e ville, persino un’isola tutta sua, Tetiaroa, nel mare della Polinesia.
E anche: il primogenito Christian, bambino conteso, rapito dalla madre, e ripreso dal padre per poi essere affdato alle baby sitter, quel fglio che da adulto uccide il fdanzato della sorellastra Cheyenne. Quel fglio condannato a dieci anni che in carcere confessa: «Se non avessi avuto un padre così, la mia vita sarebbe stata diversa » . Forse non avrebbe ucciso, forse nessuno sarebbe morto. Perché dopo la morte del compagno di Cheyenne, è la volta di Cheyenne che s’impicca al flo del telefono in casa della mamma. Sequela di morti, fgure di una tragedia shakespeariana.
E papà Marlon Brando? Icona, mito, fantasma.
Lui disprezza tutti, a cominciare da se stesso: «Ho occhi come quelli di un maiale morto». E ancora: «L’unica ragione per cui rimango a Hollywood è che non ho il coraggio morale di rifutare i soldi». E anche: «Recitare è una cosa da barboni. Smettere, un atto di maturità». Di sé, degli anni migliori, ricorda: «Il cinema uccide l’individuo. Tanti anni buttati via. Mi hanno appesantito fisicamente, mentalmente, spiritualmente».
Mentre tutti gli altri, i grandi vecchi, rievocano, lui denigra: «Trovavo donne che mi s’inflavano nel letto, dovunque. Arrivavano a offrirmi soldi. Si offrivano di lavarmi i piedi, come Gesù. Ma io non volevo fnire in croce».
Quando il fglio uccide e la fglia si uccide, lui prende su di sé la colpa
«È come recitare con Dio», dichiara Al Pacino dopo essere stato con lui sul set de Il padrino. Marlon Brando però non vuole essere né Gesù né Dio. Suo malgrado sarà invece Re Lear. In tribunale, grasso, addolorato, depone al processo contro il fglio. Dice di non essere stato un buon padre, e lo dice piangendo. Difende il primogenito accusando, per quel che può, se stesso: non sono stato un buon padre, ripete.
Nel 2004, a 80 anni, muore. Pesa 160 chili, è malato e solo. Ma pubblicamente è morto molto prima. Lui stesso ha ucciso il Marlon giovane ribelle. Ritirandosi dalle scene nel momento di massima luce, nel 1979, dopo Apocalypse Now, per il quale riceve un Oscar. Mette in atto la morte in vita per rimanere icona, mito, fantasma.
Lui sa che bellezza e successo durano poco. Presagisce il rimpianto. E Brando non vuole rimpianti. È lui che decide quando bellezza e successo hanno fne.
Non bastano dunque bellezza e talento per essere lui, servono desiderio di fuga, disprezzo, ribellione, consapevolezza, e senso della tragedia.
Non bastano bellezza e talento, serve maledizione. Infelicità.
«Contro chi vi ribellate?». Contro di noi, sarebbe la vera risposta, quella che Marlon Brando ha dato con la sua intera esistenza fuori dallo schermo.
« R E C I TA R E È U N A C OS A DA B A R B O N I . SMETTERE, U N A T TO D I MAT U R I TÀ »
Non bastano talento e bellezza per essere lui. Ci vuole il senso della tragedia