Il mio rap è un sermone
Kendrick Lamar, cresciuto nel ghetto di Compton a Los Angeles, dice di essere già stato salvato una volta da ragazzino nel parcheggio di un supermercato. Un’anziana signora, nonna di un suo amico, si è avvicinata a lui e ai suoi compagni di gang e ha chiesto loro se avevano mai pensato di accogliere Dio nella loro vita: «Uno dei nostri era appena stato ammazzato, lei sapeva che non eravamo a posto con la testa e si è fatta avanti per aiutarci. È stata il nostro angelo».
Oggi, dopo aver scoperto che la fama e la ricchezza non offrono nessun tipo di salvezza aggiuntiva né la felicità, Lamar ha deciso di «alzare il livello. Ho capito che era una cosa che dovevo fare assolutamente». Il suo disco del 2012, good kid, m.a.a.d. city, era il racconto in presa diretta di una giornata nella vita del vecchio Kendrick, studente dotato e un po’ ribelle cresciuto in un quartiere infestato dal crimine e dalla presenza costante della morte. Il nuovo album, To Pimp a Butterfy, invece, ci trasporta nel suo presente, fatto di tour mondiali e premi. Il che non gli ha impedito di cadere nell’autocommiserazione, nei dubbi e nel peccato: vedi testi e musica potente, molto infuenzata dal jazz e dal funk.
Niente a che fare insomma con il suono morbido del suo debutto. È diventato anche più esplicitamente politico: nel disco affronta la questione razziale in America e la brutalità della polizia. «Esci da Compton e devi imparare ad avere a che fare con tutte queste persone che non sono di colore come te», spiega.
Alla fne il suo ultimo lavoro è una storia di «sopravvivenza e colpa» lunga quasi 80 minuti, una specie di concept album in cui Lamar ha rinunciato ai singoli facili senza preoccuparsi del rischio di un fallimento commerciale. good kid, m.a.a.d city era altrettanto denso di contenuti. Il singolo Swimming Pools (Drank) parlava dell’abuso di alcol, mentre Bitch Don’t Kill My Vibe cominciava con questa dichiarazione: «Sono un peccatore che sicuramente commetterà altri peccati». «Per molti dei miei fan sono la cosa più vicina a un predicatore che abbiano mai ascoltato», dice Lamar sdraiato su un divano nello studio di Santa Monica dove ha registrato gran parte del nuovo album. «L’ho capito dopo aver fatto il primo tour. I ragazzi là fuori vivono seguendo la mia musica». Poi aggiunge: «Anche se le mie parole non saranno mai forti come la parola di Dio. Io sono solo un messaggero».
«La gente che vive nel ghetto non ha nessuna voglia di sentire pezzi che parlano di sparatorie e traffici di droga»
Kendrick Lamar vuole purifcare l’hip-hop e trasformarlo in un genere musicale che affonda le sue radici nella realtà e in particolare nella sua personale esperienza di ragazzo povero cresciu- to con un padre gangster. Un’alternativa all’immaginario creato da un certo rap mainstream: «Sai bene che tipo di canzoni girano adesso», spiega. «Piacciono a tutti, vendono parecchio e fanno fare una montagna di soldi alle case discografche. Ma la gente che davvero vive nel ghetto non ha nessuna voglia di sentire pezzi che parlano di sparatorie e traffci di droga, vogliono solo dimenticarsi di tutta quella merda. Inoltre, se lo fai sembrare sempre un gioco, i ragazzini in strada penseranno che è solo un gioco e continueranno a metterlo in atto. Io non faccio altro che mostrare le due facce della medaglia. È molto più di una responsabilità, è una missione».
Il punto è che, se si può mettere in discussione l’eccessivo materialismo e l’ego smisurato di Kanye West o la poca empatia con gli altri di Drake, o persino la saggezza fuorilegge di Tupac Shakur ( di cui ha campionato un’intervista in Mortal Man), Kendrick Lamar può diventare un portavoce accettabile della scena hip-hop. Oltre a essere religioso, non beve, non fuma, non va in giro vestito tutto frmato, non ha la passione per i gioielli ed è fdanzato da dieci anni con la stessa ragazza che aveva al liceo. «Non mi piace trascinare gli altri sotto i rifettori e farli diventare delle celebrità se non è quello che vogliono», dice di lei. Nella prima traccia di To Pimp a Butterfy, però, si sente la voce del guru del funk George Clinton che su un beat prodotto da Flying Lotus dice: «Guardati dentro, sei veramente tu quello che idolatrano?». Nelle strofe successive, una più rivelatrice dell’altra, Kendrick riconosce il rischio di «usare male la propria infuenza sugli altri» e critica se stesso e il
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p r e pa r at i »
potere che gli è arrivato addosso grazie al successo. In Good Kid, M.A.A.D City era un adolescente che andava dietro alle ragazze e rubava nelle case. Adesso il problema è la fama: «Dov’eri quando c’era bisogno di te? Dov’è l’appoggio che tu pretendi dagli altri?», si chiede nel pezzo dopo l’omicidio di un amico. «Non sei un fratello / non sei un discepolo / non sei un amico / Un vero amico non avrebbe mai lasciato Compton per i soldi».
Kendrick ora vive in un condominio non lontano dal suo vecchio quartiere. Non era preparato alla sensazione di incertezza e alla depressione che si scatena quando vieni improvvisamente accettato come portavoce dalla tua comunità: «Puoi farti raccontare tutto sulla fama e sul successo, ma fnché non sei lì e non vedi che tipo di persona puoi diventare...», spiega abbassando la voce. «So che tutti gli artisti pensano la stessa cosa, ma riuscire a far passare questo concetto attraverso un disco e farlo arrivare alla gente normale, quella che va a lavorare ogni giorno, è la parte più complicata, la più diffcile. Io voglio farlo capire a tutti: ho messo la mia anima a nudo in questo album. Lo puoi capire perché provi le stesse cose, lo stesso dolore. Potrà essere diverso dal mio, ma lo senti anche tu».
«È la persona più sana di mente che conosca», dice di lui il suo manager. «È sempre calmo. Come Gandhi»
Da vicino, Lamar «è la persona più sana di mente che io conosca», dice Dave Free, presidente dell’etichetta Top Dawg Entertainment, suo amico dai tempi della scuola e ora suo manager. Lui lo paragona addirittura a Gandhi: «È sempre calmo, non lo vedrai mai reagire alle situazioni in modo esagerato».
Kendrick Lamar è piccolo, meno di un metro e settanta, si veste in modo molto poco appariscente (cappellino da baseball, maglietta grigia e jeans) ma si muove come se fosse molto più alto. Ha una voce gentile e delicata, sorride spesso in modo compiaciuto, ride quando vuole sottolineare di avere detto una banalità. To Pimp a Butterfy rappresenta la sua seconda personalità: oltre al peccatore colpevole c’è il predicatore di un nuovo black power. Il primo frammento di musica che si sente nel disco è il campionamento di Every Nigger Is a Star di Boris Gardiner, colonna sonora di un flm giamaicano degli anni ’70. Da lì prende il via un album feroce, sia nei suoni sia nei testi, con fati jazz suonati dal vivo, tanto groove soul e le voci di Lalah Hathaway (fglia del leggendario Donny Hathaway) e Ronald Isley degli altrettanto leggendari Isley Brothers. Mark Spears, produttore conosciuto come Sounwave, dice che è una musica infuenzata in egual misura da Miles Davis e da Dr. Dre: «È carica di rabbia e frustrazione. Ci sono tanti problemi nel mondo oggi, e qualcuno è fnito nel disco», dice riferendosi ai recenti fatti di Ferguson.
In King Kunta, un pezzo funk martellante, Kendrick si paragona ad Alex Haley, il protagonista di Radici, e dice: «La gente di colore non accetta più morti». Un orgoglio di razza presente anche nel primo singolo, i, basato su un sample degli Isley Brothers e con un ritornello concepito come un gioioso ritorno a casa a Compton. The Blacker the Berry, invece, lascia senza parole: «Mi odi, vero?/ Il tuo piano è distruggere la mia cultura», grida prima di guardarsi allo specchio e attaccare se stesso: «Ipocrita!».
è il suo lato pop, gli ha fatto vincere due Grammy Award ed è salito fno al numero 39 della classifca americana. The Blacker the Berry è l’opposto, un pezzo duro, aggressivo. Lamar punta il dito contro i crimini commessi dagli afroamericani contro altri afroamericani e fa considerazioni sull’uccisione di Michael Brown che hanno scatenato polemiche: «Una cosa che non sarebbe mai dovuta succedere, ma se non abbiamo rispetto per noi stessi, come possiamo aspettarci che gli altri lo abbiano per noi?». È stato accusato di ignorare il razzismo dilagante e ha risposto: «Parlo solo per me, questa è la mia esperienza». Per quanto riguarda il tema della brutalità della polizia: «Conosco bene la storia, l’orgoglio nero è una materia che a casa mia è sempre stata insegnata». A 15 anni Lamar ha vissuto l’esperienza di un’irruzione in casa da parte della polizia: «Sono stato preso a calci. Io non parlo alla gente che vive nei tranquilli sobborghi residenziali, ma a chi è stato trascinato fuori dalla macchina e si è visto puntare una pistola contro almeno una volta. Fare la vittima non ha senso». Dopo aver visitato la cella di Nelson Mandela a Robben Island, Kendrick ha scelto di predicare l’unità della comunità afroamericana come arma contro l’oppressione. In Hood Politics, basata su un sample di Sufjan Stevens, Lamar getta un ponte tra “Compton e il Congresso” e poi paragona i politici ai membri di una gang: “I Demo-crips e i Re-blood-icans”.
«Voglio che il mio disco vi faccia incazzare e vi renda felici, che provochi disgusto e vi faccia sentire a disagio»
Anche la copertina di To Pimp a Butterfy fa riferimento a questo. È l’immagine molto forte di un gruppo di afroamericani a torso nudo, con in mano bottiglie di alcol e mazzette di soldi. E la Casa Bianca sullo sfondo. «È un modo per rappresentare la mia voglia di prendere tutte le cose che giudichiamo sbagliate e di portarle con me verso un livello superiore. Che sia in giro per il mondo o alla cerimonia dei Grammy. Non posso cambiare le mie origini e le persone a cui tengo di più». I beni materiali non hanno mai fatto presa su di lui, ma «ciò che mi spinge è ispirare e motivare le persone che non ne hanno mai avuti. Penso ai ragazzi in strada e a tutti quelli che sono appena usciti di galera». L’album fnisce con Mortal Man, in cui Lamar si fa profeta rap: «Sono alla guida di questo esercito, ma lasciate spazio agli errori e alla depressione», dice invocando lo spirito di Mandela, Huey Newton, Martin Luther King e Michael Jackson. «Credete in me?», chiede al pubblico, prima di sfdarlo: «Quante volte avete detto che avevate bisogno di un leader e poi lo avete lasciato morire?». Non è un disco politico. «È coraggioso e onesto, ma è anche un cd di consapevolezza e rifuto. Voglio che vi faccia arrabbiare e che vi renda felici. Che vi provochi disgusto e vi faccia sentire a disagio».
« L’o r g o g L i o nero È una mat e r i a c h e a c asa mia È s e m p r e s tata
i n s eg n ata » «Io parlo a chi è stato preso a calci come me
e si è visto puntare una pistola addosso»