Che notte, quella nero e arancio
L’EVENTO Indirizzi segreti, posti esclusivi e poi la meglio musica che c’è: benvenuti alle feste nella JÄGER HOUSE, questo mese anche a Milano
Immaginate una casa trasformata in club, solo per una notte. Jägermeister l’ha pensata e creata davvero: itinerante, per una festa capace di accendere una notte intera, per un party incredibile. Che arriverà a Milano − per la seconda volta, dopo la memorabile Jäger House dello scorso anno − per l’appuntamento dell’11 dicembre.
Di serate indimenticabili, d’altronde, lo spirit ne ha già organizzate parecchie: dopo Casa Jäger in Spagna e Maison Jägermeister in Francia, Jägermeister aveva poi scelto l’italia per le leggendarie Jäger House, prima a Milano, poi a Roma e a Catania. E ora ritorna, con una serata all’insegna delle sorprese.
All’arrivo, seguite il primo invito: “Knock on for the most legendary night”. Non esitate a bussare! Sarete proiettati in un tipico party in casa, dove tutto inizia come un classico ritrovo tra amici. Ma il tasso di divertimento si impennerà velocemente, e quella che sembrava una festa tranquilla si trasformerà in una serata epica. Come è accaduto nella tappa di Catania, ambientata in una memorabile location: la villa nobiliare dove Francis Ford Coppola ha girato alcune scene del Padrino - Parte II.
Avanti tutta fino all’alba: complice il buon bere, naturalmente, e un posto da sogno. A inebriarvi, letti di palline colo- rate in cui tuffarsi, uno spazio dove farsi tatuare e alcove king size. Ma anche uno spazio con flipper e calcio balilla, artisti che dipingono murales e poi ancora un drink prima di continuare a scatenarsi e scoprire le mille altre sorprese che la notte avrà in serbo per voi.
Perché come ogni festa memorabile che si rispetti, Jägermeister pensa a tutto: a Milano, come già nelle precedenti tappe, ci sarà la migliore musica per scatenarsi.
Flipper, calcio balilla e pause in alcove king size
Con le selezioni dei dj del Cocoricò di Riccione e tutto il talento dei migliori nomi della scena clubbing italiana. Segnatevi la data e preparatevi a una notte da leoni: anche Milano (la location è ancora top secret) si colorerà di nero e arancio, i colori ufficiali del brand, e ospiterà la famiglia Jägermeister per un incredibile party che non potrà non lasciare il segno nei vostri ricordi.
I MIGLIORI
NOM I D E L
CLUBBING
D E T TA N O
I L R I T MO
Il cavaliere dei quattro mori (come è stato felicemente ribattezzato) si presenta di primo pomeriggio, col suo lucido destriero di carbonio, in una giornata che odora di pioggia lungo i marciapiedi di Lugano.
È un portento con la faccia normale, Fabio Aru, un combattente implacabile e discreto, dritto e affilato come un levriero, con lunghe ossa di acciaio. Ossa e muscoli sempre al lavoro e sempre a dura prova, tant’è che nemmeno dopo la vittoria alla Vuelta di Spagna questo grintoso grimpeur si è mai fermato davvero. Infatti confida sorridendo che perfino la mattina che ha preceduto la nostra intervista ha pedalato per quattro ore. Ma questa è la sua vita, e lui sembra indossarla senza patemi: ha lo sguardo limpido e il sorriso felice e franco, tuttavia da certi repentini cambi di espressione negli occhi si intuisce che è solo questione di un attimo, passare dal ridere al far sul serio. E Fabio, in questo 2015, ha fatto sul serio.
«Preferivo la mountain bike: si finiva con un pasta party»
« Avevano annunciato che la Andorra La Vella-cortals d’encamp sarebbe stata la tappa più difficile di sempre alla Vuelta. Certo, è stata dura, ma io ho sofferto molto di più nelle prime: sono caduto alla seconda e nelle successive non mi sentivo bene. Quella che però non dimenticherò mai, di quest’anno, è la tappa del Giro d’italia sul Mortirolo. La più difficile in assoluto. Avevo problemi intestinali e non ero nemmeno al cento per cento. Ho dovuto davvero stringere i denti».
Cadute, dolore, salite, intemperie. Come si fa, a stringere i denti?
«Li consumi, guarda. Non so come spiegartelo. Lo fai, ti viene da dentro. Non tutti ci riescono. Ma sai il punto qual è? Che io non ho mai avuto risultati senza la fatica, quindi la metto in conto: so che devo soffrire e basta, non ci penso. Negli anni la soglia del mio dolore si è alzata parecchio e in realtà è proprio questo il bello: al Giro ho avuto problemi, ma sono riuscito a finirlo nonostante tutto; e questo mi ha aiutato alla Vuelta. Il dolore diventa esperienza».
Eppure una volta hai detto che, all’inizio, non amavi per niente le salite.
«Ho cominciato con le gare a quindici anni. Ad andare in bicicletta, invece, a dodici. A quell’epoca giocavo a tennis e calcio, e la bici per me era più che altro un mezzo di trasporto. Non mi piaceva faticare, è vero, anche se mi rendo conto che dirlo ora suona paradossale. Avevo una Bmx e una mountain bike, mai avuto il motorino. Pensa, in realtà avrei sempre desiderato un “Si”, ma i miei non me l’hanno mai comprato. Così mi son dovuto adeguare».
Un campione nasce anche da un motorino negato, questa sì che è una notizia.
«E te ne do un’altra: prima del 2009 non volevo nemmeno sentir parlare del ciclismo su strada. Il ciclocross e la mountain bike erano ambienti più familiari, c’era poca pressione e a fine gara si faceva il “pasta party”… La strada è un ambiente più impegnativo, non c’è dubbio. Girano più soldi, si devono fronteggiare aspettative, tensioni e stress mediatici, e tra i professionisti è tutto centuplicato. Pensa che all’epoca, negli juniores, c’erano atleti che facevano già 130 chilometri di allenamento al giorno, io solo 60. Adesso arrivo a 200. Dipende dalla preparazione».
«non s arei m a i s a l i to sul podio senza la bandiera
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