IL MIO CUORE V A A Z I G Z AG
A pranzo con il ministro della Salute BEATRICE LORENZIN, che palpita a destra, sorride al PD e non teme le contraddizioni
Quegli orecchini pendenti che
porta così spesso… «Me li ha
regalati il ministro Roberta Pi-
notti per il mio compleanno».
Le sue nuove amiche “pendo-
no” tutte a sinistra? «Mi trovo
benissimo. In Consiglio dei mi-
nistri siamo una forza, sembria-
mo tutte dello stesso partito».
Come
Le donne al Parlamento
di Aristofane? «Con la stessa po-
«Dio me ne scampi. Mio padre,
socialista anticomunista, inor-
ridirebbe». E inorridirebbero
anche i suoi padrini politici che
sono una folla di destra: lei è stata la petite protégée di Tajani e poi di Bonaiuti, quindi di
Alfano e ovviamente di Gianni
Letta, ma anche di Brunetta e
di Enrico Letta. Come ha fatto a
conquistarli tutti? «La tenacia, la
capacità di organizzare, un’os-
sessione per lo studio dei dos-
sier…». I dossier sono feticci
berlusconiani. «È vero. Primo:
mai farsi beccare disinformati».
Eppure, quando la nominaro-
no alla Sanità − 115 miliardi l’an-
no, più del 7 per cento del Pil −
Beatrice Lorenzin sembrò a tut-
ti molto fragile: «Partire sotto-
valutata è stata la mia fortuna».
Dica la verità: da ragazzaccia
di Ostia non ci credeva neppu-
re lei. «Lo dico sempre a mia
madre, che mai avrei pensato di
diventare ministro a 40 anni. E
ci ridiamo su». Ministro o mini-
stra? «“Signora ministro”, come
in Francia». Come votava da ra-
gazza? «Radicale. Poi alla Fon-
dazione Einaudi ho incontrato
Antonio Martino e ho scoperto
la forza del pensiero liberale».
Liberale di destra. «Liberale».
«È vero, non ho la laurea,
però consulto gli scienziati»
Piccola, risoluta, a capo di uno
staff tutto maschile, Beatrice
Lorenzin parla di Sanità con la scioltezza di Umberto Veronesi: «Durante il semestre italiano a
capo dell’ue − racconta in tono
scanzonato Claudio Rizza, il suo
portavoce − quelli dell’istituto
“Pasteur” pensavano che fosse
una di loro, una ricercatrice».
Quali sono i titoli per fare
il ministro della Salute? «All’i-
rimproverò di non essere lau-
reata». Un politico se lo può an-
cora permettere? «Chi sceglie la
politica per passione la sceglie
molto presto e la mette subito
al primo posto». Dove ha fatto il
liceo? «Al classico di Ostia, l’an-
co Marzio, l’unico che c’è. Poi
mi iscrissi alla Sapienza in Giu-
e non mi sono laureata. Me ne
pento, anche se la storia d’ita-
lia è piena di politici competenti
ma non laureati». Pentiti anche
loro? «Forse». E come prende le
decisioni? «Studio molto i dos-
sier che sono preparati dalle
persone più competenti d’italia,
mi consulto con gli scienziati,
prendo è politica. Pensi che
quei medici che protestarono
poi mi hanno chiesto scusa».
Perché piace a sinistra an-
che se è molto cattolica ed è
contro le adozioni gay? «Sono
favorevole alla 194, sono per
l’eterologa e sono prima di
tutto un ministro e dopo una
credente. E da credente non
sopporto, per esempio, che nel
Sud si preghino i santi per otte-
nere le guarigioni e surrogare
la scienza e la medicina». Suo
marito è cattolico? «No. E non
siamo nemmeno sposati». Vive
nel peccato? «Non mi ci sento» .
Suo marito, Alessandro Picardi, lavora in Rai. «È un manager». È cattolica di famiglia? «No, mio
padre è ateo. E mia madre agno-
stica. La mia è stata una scelta
personale». Incontri? «Una suo-
ra. E poi monsignor Fisichella.
Quando era il cappellano della
Camera sono andata con lui a
un pellegrinaggio». Va a messa
la domenica? «Se potessi, ci an-
drei ogni giorno. E credo nei
segni spirituali. I miei figli ge-
melli, Lavinia e Francesco, che
ho avuto a 43 anni, sono nati
prematuri. Qualcosa, un mo-
vimento, chissà, mi spinse ad
andare in ospedale senza l’ap-
parenza di un motivo. Ebbene,
per com’erano messi,
« B E R LU S C O N I È U N S E D U T TO R E ,
R E N Z I U N C OMANDA N T E .
MA SUL WELF ARE, LA PIÙ
A SINIS TRA DI TUT TI SONO IO
« C O N V I VO
MO R E U XO R I O
E NON MI
S E N TO N E L
P E C CATO »
«Nessuno può dire che
sono una voltagabbana»
Beatrice Lorenzin viene da
Ostia, 94mila abitanti. « Ma
quando tornavo a casa, nel vil-
laggio Alitalia, era come ritirarsi in un college». È una città che rifiutò di essere Comune per-
ché voleva restare Roma fuori
Roma. «L’identità è il problema
degli ostiensi, il bisogno e lo
sforzo di farsi accettare. La furia
del marginale». Dunque viene
l’avventura di Zanella e Bertolini è finita male, schiacciata da un diretto concorrente, Pebble, e dall’arrivo di Apple e Samsung.
«Le “exit” in Italia non funzionano. E i “venture capital”, i capitali di investimento a rischio, sono un’illusione»
Un sogno inseguito da tanti, quello della startup digitale, che nell’ultimo lustro ha colonizzato l’immaginario Italiano. « Ben 5.000 imprese innovative create » , scriveva ancora pochi mesi fa, con toni trionfalistici. Salvo ammettere, qualche riga più avanti, che « non sono ancora i grandi numeri di Usa e Unione europea » . La realtà, in effetti, è ben diversa: la mortalità tra le imprese nascenti è un fenomeno diffuso. Su tre aziende create, due sono destinate a morire. Delle startup, solo una su dieci sopravvive nei primi tre anni. E spesso sopravvivere non significa andare bene, ma essere tenuti in vita in maniera artificiale da seed ( fondi pubblici o privati, a parziale copertura dei costi di avviamento, tra 10 e 150mila euro) e finanziamenti. Appena una su venti fattura con successo dopo i primi quattro anni di vita.
« Il mito sta vacillando. Le “exit” ( le cessioni di proprietà, attraverso acquisizione, vendita completa o quotazione in Borsa, ndr) non funzionano in Italia. E i “venture capital”, i capitali d’investimento a rischio, sono un’illusione » , spiega Andrea Dusi, Ceo del gruppo Wish Days e curatore del blog Startupover, storie di startup che non ce l’hanno fatta, con un database di 1.200 neoimprese fallite.
« La startup è diventata un’ideologia » , spiega Gianluca Salvatori, esperto di incubatori d’impresa e Ad di Euricse, un centro di formazione e ricerca sull’impresa sociale. Una sorta di imperativo, insomma, che ha prodotto una crescita inflazionata degli spazi dove far nascere le imprese innovative. Nel 2014, secondo il rapporto Italia Startup, per 2.716 società affermate di questo genere si contavano oltre un centinaio di “incubatori” e “acceleratori”.
qualcuno per l’apertura di un
ristorante italiano in un hotel di
Bangkok. Volevano chiamarlo
“Pronto” e servire tramezzini: dissi subito che non ero la persona giu- sta. Poi