GQ (Italy)

IL MIO CUORE V A A Z I G Z AG

A pranzo con il ministro della Salute BEATRICE LORENZIN, che palpita a destra, sorride al PD e non teme le contraddiz­ioni

- Testo di FRANCESCO MERLO Illustrazi­one di ELISABETH MOCH

Quegli orecchini pendenti che

porta così spesso… «Me li ha

regalati il ministro Roberta Pi-

notti per il mio compleanno».

Le sue nuove amiche “pendo-

no” tutte a sinistra? «Mi trovo

benissimo. In Consiglio dei mi-

nistri siamo una forza, sembria-

mo tutte dello stesso partito».

Come

Le donne al Parlamento

di Aristofane? «Con la stessa po-

«Dio me ne scampi. Mio padre,

socialista anticomuni­sta, inor-

ridirebbe». E inorridire­bbero

anche i suoi padrini politici che

sono una folla di destra: lei è stata la petite protégée di Tajani e poi di Bonaiuti, quindi di

Alfano e ovviamente di Gianni

Letta, ma anche di Brunetta e

di Enrico Letta. Come ha fatto a

conquistar­li tutti? «La tenacia, la

capacità di organizzar­e, un’os-

sessione per lo studio dei dos-

sier…». I dossier sono feticci

berlusconi­ani. «È vero. Primo:

mai farsi beccare disinforma­ti».

Eppure, quando la nominaro-

no alla Sanità − 115 miliardi l’an-

no, più del 7 per cento del Pil −

Beatrice Lorenzin sembrò a tut-

ti molto fragile: «Partire sotto-

valutata è stata la mia fortuna».

Dica la verità: da ragazzacci­a

di Ostia non ci credeva neppu-

re lei. «Lo dico sempre a mia

madre, che mai avrei pensato di

diventare ministro a 40 anni. E

ci ridiamo su». Ministro o mini-

stra? «“Signora ministro”, come

in Francia». Come votava da ra-

gazza? «Radicale. Poi alla Fon-

dazione Einaudi ho incontrato

Antonio Martino e ho scoperto

la forza del pensiero liberale».

Liberale di destra. «Liberale».

«È vero, non ho la laurea,

però consulto gli scienziati»

Piccola, risoluta, a capo di uno

staff tutto maschile, Beatrice

Lorenzin parla di Sanità con la scioltezza di Umberto Veronesi: «Durante il semestre italiano a

capo dell’ue − racconta in tono

scanzonato Claudio Rizza, il suo

portavoce − quelli dell’istituto

“Pasteur” pensavano che fosse

una di loro, una ricercatri­ce».

Quali sono i titoli per fare

il ministro della Salute? «All’i-

rimproverò di non essere lau-

reata». Un politico se lo può an-

cora permettere? «Chi sceglie la

politica per passione la sceglie

molto presto e la mette subito

al primo posto». Dove ha fatto il

liceo? «Al classico di Ostia, l’an-

co Marzio, l’unico che c’è. Poi

mi iscrissi alla Sapienza in Giu-

e non mi sono laureata. Me ne

pento, anche se la storia d’ita-

lia è piena di politici competenti

ma non laureati». Pentiti anche

loro? «Forse». E come prende le

decisioni? «Studio molto i dos-

sier che sono preparati dalle

persone più competenti d’italia,

mi consulto con gli scienziati,

prendo è politica. Pensi che

quei medici che protestaro­no

poi mi hanno chiesto scusa».

Perché piace a sinistra an-

che se è molto cattolica ed è

contro le adozioni gay? «Sono

favorevole alla 194, sono per

l’eterologa e sono prima di

tutto un ministro e dopo una

credente. E da credente non

sopporto, per esempio, che nel

Sud si preghino i santi per otte-

nere le guarigioni e surrogare

la scienza e la medicina». Suo

marito è cattolico? «No. E non

siamo nemmeno sposati». Vive

nel peccato? «Non mi ci sento» .

Suo marito, Alessandro Picardi, lavora in Rai. «È un manager». È cattolica di famiglia? «No, mio

padre è ateo. E mia madre agno-

stica. La mia è stata una scelta

personale». Incontri? «Una suo-

ra. E poi monsignor Fisichella.

Quando era il cappellano della

Camera sono andata con lui a

un pellegrina­ggio». Va a messa

la domenica? «Se potessi, ci an-

drei ogni giorno. E credo nei

segni spirituali. I miei figli ge-

melli, Lavinia e Francesco, che

ho avuto a 43 anni, sono nati

prematuri. Qualcosa, un mo-

vimento, chissà, mi spinse ad

andare in ospedale senza l’ap-

parenza di un motivo. Ebbene,

per com’erano messi,

« B E R LU S C O N I È U N S E D U T TO R E ,

R E N Z I U N C OMANDA N T E .

MA SUL WELF ARE, LA PIÙ

A SINIS TRA DI TUT TI SONO IO

« C O N V I VO

MO R E U XO R I O

E NON MI

S E N TO N E L

P E C CATO »

«Nessuno può dire che

sono una voltagabba­na»

Beatrice Lorenzin viene da

Ostia, 94mila abitanti. « Ma

quando tornavo a casa, nel vil-

laggio Alitalia, era come ritirarsi in un college». È una città che rifiutò di essere Comune per-

ché voleva restare Roma fuori

Roma. «L’identità è il problema

degli ostiensi, il bisogno e lo

sforzo di farsi accettare. La furia

del marginale». Dunque viene

l’avventura di Zanella e Bertolini è finita male, schiacciat­a da un diretto concorrent­e, Pebble, e dall’arrivo di Apple e Samsung.

«Le “exit” in Italia non funzionano. E i “venture capital”, i capitali di investimen­to a rischio, sono un’illusione»

Un sogno inseguito da tanti, quello della startup digitale, che nell’ultimo lustro ha colonizzat­o l’immaginari­o Italiano. « Ben 5.000 imprese innovative create » , scriveva ancora pochi mesi fa, con toni trionfalis­tici. Salvo ammettere, qualche riga più avanti, che « non sono ancora i grandi numeri di Usa e Unione europea » . La realtà, in effetti, è ben diversa: la mortalità tra le imprese nascenti è un fenomeno diffuso. Su tre aziende create, due sono destinate a morire. Delle startup, solo una su dieci sopravvive nei primi tre anni. E spesso sopravvive­re non significa andare bene, ma essere tenuti in vita in maniera artificial­e da seed ( fondi pubblici o privati, a parziale copertura dei costi di avviamento, tra 10 e 150mila euro) e finanziame­nti. Appena una su venti fattura con successo dopo i primi quattro anni di vita.

« Il mito sta vacillando. Le “exit” ( le cessioni di proprietà, attraverso acquisizio­ne, vendita completa o quotazione in Borsa, ndr) non funzionano in Italia. E i “venture capital”, i capitali d’investimen­to a rischio, sono un’illusione » , spiega Andrea Dusi, Ceo del gruppo Wish Days e curatore del blog Startupove­r, storie di startup che non ce l’hanno fatta, con un database di 1.200 neoimprese fallite.

« La startup è diventata un’ideologia » , spiega Gianluca Salvatori, esperto di incubatori d’impresa e Ad di Euricse, un centro di formazione e ricerca sull’impresa sociale. Una sorta di imperativo, insomma, che ha prodotto una crescita inflaziona­ta degli spazi dove far nascere le imprese innovative. Nel 2014, secondo il rapporto Italia Startup, per 2.716 società affermate di questo genere si contavano oltre un centinaio di “incubatori” e “accelerato­ri”.

qualcuno per l’apertura di un

ristorante italiano in un hotel di

Bangkok. Volevano chiamarlo

“Pronto” e servire tramezzini: dissi subito che non ero la persona giu- sta. Poi

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