GQ (Italy)

LE MIE BARCHE A FORMA DI PESCE

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Federico Santa Maria sostiene che per disegnare una barca meraviglio­sa occorre pensarla così: come una creatura zoomorfa, testa e corpo, dispiegata nell’azzurro. Nient’altro deve disturbare la scena. Così lei, vista dalla battigia, a un certo punto entrerà tanto lenta e annunciata nello sguardo da diventare essa stessa il paesaggio.

«Il primo disegno di cui ho memoria è quello di un motoscafo Riva Bravo: lo feci in prima elementare», racconta. «Mi sono laureato in architettu­ra al Politecnic­o di Milano con una tesi sulla bra di carbonio, poi ho lavorato per i cantieri Wally dove ho capito che l’odore di resina e teak scaldato riusciva a inebriarmi, e tre anni fa ho aperto con Valentina Magnol uno studio di progettazi­one, Santa Maria Magnol , a Milano», dice, riassumend­o trent’anni di vita. Rimane fuori curriculum la passione marinara dell’intera famiglia, tutti avvocati tranne lui, eretico. Il nonno, padrone di una Paraggina ormeggiata a Chiavari. Il padre, con un custom X-yacht realizzato in Danimarca e attraccato a Santa Margherita Ligure. E in ne il Summertime 180 di proprietà esclusiva di Federico, da quando aveva sette anni, giallo e blu: «Era un canottino a remi comprato in edicola: partivo e mi in lavo tra le navi del porto per studiare come lo scafo tagliava l’acqua».

Lapo Elkann, che ama le creature ossessive, gli ha già chiesto di lavorare al suo Baglietto di 13 metri, il Lap1. Lui, intanto, nel 2015 è stato nalista del premio Hublot per il design con un altro progetto: si chiama Pangea, lungo 70 metri e pensato per comportars­i come un continente, con un sottomarin­o nella pancia, un elicottero sopra e lo scafo di prua rovesciato. «Disegno senza pormi limiti, cercando d’essere contempora­neo ma fermandomi quell’attimo prima che l’intuito verso ciò che piace possa farmi diventare di moda». _ (Raffaele Panizza)

Il papà di Valeria, il papà di Giulio. Valeria Solesin è morta a Parigi, nel teatro Bataclan, Giulio Regeni è stato seviziato e ucciso al Cairo. Il papà di Valeria si chiama Alberto, quello di Giulio si chiama Claudio. Nessuno prima li conosceva, in pochi adesso riuscirann­o a dimenticar­li. Perché le loro parole del tutto prive di odio hanno come distillato in purezza il dolore più immane e innaturale che esista, quello provocato dalla perdita di un glio, alla ricerca di un senso condiviso e di una speranza possibile.

Accade a volte che i padri diventino gli dei propri gli e dicano loro grazie. Alberto ha raccontato che Valeria aveva un bellissimo progetto di vita, fatto di amicizia e apertura verso gli altri. «Io e la sua mamma la ringraziam­o per questo, per come ci ha indicato la strada da percorrere». Claudio ha detto che Giulio amava vivere nella condivisio­ne e gli piaceva credere in un mondo più libero. «Nel nostro futuro penseremo a lui, ma soprattutt­o come lui». Due famiglie, due padri uniti da un’idea comune. Alberto e Claudio hanno saputo mantenersi intatti di fronte ai corpi straziati dei loro ragazzi. Non hanno avuto gli occhi iniettati di sangue, non sono andati in cerca – neppure con le parole – del nemico di un’altra religione, di una cultura straniera. Alberto Solesin ha voluto che i funerali di Valeria fossero concelebra­ti da ministri di culti diversi, «perché noi crediamo nei valori che non dividono le persone». Claudio Regeni ha ri utato le solenni esequie di Stato, «perché in questo modo saranno tutti più liberi di partecipar­e». Il pensiero degli altri, seguendo l’identico sguardo “plurale” dei loro ragazzi scomparsi ma non svaniti. Uccisi nel modo più brutale, ma non cancellati.

C’è grande dignità, e stile, quando si sceglie l’impegno per onorare una memoria, e quando quella memoria si tenta poi di rispet- tare con la vita. I papà di Valeria e di Giulio hanno saputo mettersi di lato, per ascoltare bene i loro gli perduti, come se le parole di Valeria e Giulio venissero pronunciat­e ancora, e scandite sempre meglio, per tutti. Senza retorica né enfasi, e senza quella rabbia che urla chiedendo giustizia. Ecco, giustizia: non una faida, non una guerra di religione o una battaglia politica. Qualcosa di molto più semplice e umano, come gli amici accanto a quelle bare, come i volti di chi ha salutato due ragazzi che sarebbe davvero bello sentire fratelli.

Nel giorno dell’addio al suo ragazzo torturato, il papà di Giulio ha detto che gli scontri per le opinioni diverse non hanno alcun senso.

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