QUALCOSA DI NUOVO
A teatro S T E FA NO AC C O RS I racconta storie di Grandi Italiani. A GQ parla delle leggende del nostro cinema e della loro lezione di stile. Sempre attuale, anche se oggi, dice, i nostri gusti sono in trasformazione. E non è una cattiva notizia.
Pizza e birretta. Il ristorante a due passi dal teatro. La compagnia radunata attorno al tavolo. Sembra il proseguimento naturale della scena conclusiva del Decamerone vizi, virtù, passioni. Una brigata di attori che racconta i nodi cronici di una umanità per molti versi immutabile. La lingua trecentesca del Boccaccio come strumento sempre ef cace; lui, Stefano Accorsi, capocomico, protagonista di una doppia sorpresa. Mai un vezzo istrionico, nemmeno un tic da mattatore, da applauso strappato. Macché. A disposizione, piuttosto. Del testo, degli altri, di ciò che sta attorno. Semplice e curioso. Un bel sorriso pronto: «Raccontare storie è un privilegio. E la vita da teatro, da tournée mi piace sempre. Mi piace condividere una esperienza itinerante con i miei compagni di lavoro, così come la vita fatta di alberghi e di luoghi diversi. C’è sempre qualche ora buona per curiosare, per sentirti un po’ in vacanza».
Il Decamerone dopo l’orlando Furioso di Ariosto, prima de Il Principe di Machiavelli. Il progetto, basato sulla trilogia (titolo: Grandi Italiani), è già in scena da cinque anni ed è il frutto di una stretta collaborazione con il regista Marco Baliani e con il produttore Marco Balsamo. E ha lo scopo di produrre una narrazione straniante, grazie alla modernità di testi tanto noti quanto sconosciuti: «La prossima stagione riprenderemo sia il Decamerone sia l’orlando, per poi affrontare Il Principe. Nelle novelle, nelle storie che raccontiamo, ci siamo noi. Allora come ora, presi dalle nostre contraddizioni, dalle nostre debolezze. Machiavelli passa per cinico. Non lo è affatto. È il suo realismo che colpisce e vale. Una lucidità straordinaria nel prendere atto della realtà, dei caratteri e della materia umana disponibile». Accorsi si anima, emana una convinzione contagiosa, pare un ragazzino di anni 45, molto sveglio sulle cose che riguardano il suo fare, eppure lontanissimo dalle immagini dei suoi personaggi. Preso, piuttosto, dalla ricerca di un senso che determina un impegno articolato, non limitato all’interpretazione: «Non so dire sino a che punto desideri essere un imprenditore dello spettacolo. Di certo ho sempre amato la scrittura, sin da quando frequentavo la scuola di recitazione a Bologna, a vent’anni. Credo che si tratti di una aspirazione, ma anche di un’opportunità. Non a caso molti miei colleghi si dedicano alla produzione, alla regia... Siamo tutti consapevoli delle dif coltà che incontra un lm italiano. Se becchi il ne settimana sbagliato, tempo un paio di giorni e viene tolto dalle sale. Però io sono ottimista se penso ai gusti, alle aspirazioni di chi osserva ciò che si muove attorno a noi. I giovani, per esempio. Quanti ne conosciamo? Abbiamo gli e glie, gli di amici, ragazzi e ragazze bollati in continuazione da de nizioni un po’ presuntuose e vuote. In realtà, stanno segnalando un rilevante cambiamento del gusto, il desiderio di ri ettere e di confrontarsi. È qualcosa che non so de nire ma che mi rende ducioso. E che funziona da stimolo. Per me di sicuro. Per chi cerca di occuparsi di comunicazione dentro una modernità autentica».
Ecco, forse la parola più pertinente per provare a raccontare Stefano Accorsi è “curiosità”. Ciò che lo porta ad affrontare operazioni diverse tra loro, i cortometraggi per Peugeot, per esempio. Tre “corti” realizzati lo scorso anno; altri tre appena ultimati, per i quali Accorsi ha curato la regia: «Sono
video che sfruttano la nuova tecnologia immersiva Oculus, in due casi sono anche testimonial». Cortometraggi, un’operazione teatrale articolata e il cinema, ovviamente: l’ultimo lm, in uscita ad aprile, titolo Veloce come il vento, ha le corse automobilistiche come contesto, un personaggio tragicomico come fulcro. Ex pilota, inciampato nella droga, costretto e poi pronto a un riscatto dentro una famiglia squassata e tenerissima: «Le corse mi sono sempre piaciute. Le automobili, le moto. Forse perché sono nato a Bologna (2 marzo 1971) e chi cresce in Emilia non sfugge al fascino del motore. Ho guidato di tutto. E continuo ad andare in moto. Ducati e non solo. Prendo e vado. Con qualche amico. Con mia moglie, alla quale per fortuna piace viaggiare in sella». È un riferimento primo e sobrio alla propria vita privata, della quale si sa pochissimo, in realtà, al netto dell’orribile meccanismo del pettegolezzo reiterato.
Eppure, dentro la capacità evidente di sorprendersi che sta alla base del suo fare, c’è qualcosa che lo riguarda intimamente. Una specie di disposizione ad accogliere, una curiosa assenza di presunzione: «C’è stato un tempo in cui avevo la pretesa di signi care qualcosa di importante recitando, scegliendo i ruoli. È un atteggiamento che non solo ho eliminato, ma che mi disturba. Sono cresciuto con il mito di Gian Maria Volonté, la sua straordinaria grandezza, la sua missione. Poi mi sono reso conto quanto un attore come Marcello Mastroianni sia stato incisivo senza nemmeno volerlo. La sua proverbiale pigrizia svanisce se conto i lm che ha girato. Centocinquanta? Centosessanta? Signi ca lavorare in continuazione. Lottando contro la depressione, evitando di far pesare il proprio impegno. Ecco. Signi ca che non è necessario indicare una via a tutti i costi. Si fa quello che si può fare, magari sbagliando. Ma anche gli errori servono, rendono le relazioni più morbide. I miei due gli vivono a Parigi, Orlando ha 9 anni; Athena 6. Cerco di stare con loro il più possibile, vivono con me a settimane alterne. Cerco di essere un bravo papà e per fortuna c’è chi mi aiuta. Con la loro mamma i rapporti sono sereni e mia moglie mostra una bellissima disponibilità alla condivisione. Non penso sia scontato ed è fondamentale che questo accada con naturalezza». La mamma è Laetitia Casta, la moglie è Bianca Vitali, matrimonio celebrato il 24 novembre 2015, con la quale ha messo su casa a Milano, l’altra base, alternativa alla casa parigina: «Avevo vissuto a Milano per un anno, molto tempo fa. È una città che mi piace, che accoglie senza mezze misure. E poi, ora, pare attraversata da una vitalità nuova, al contrario di Parigi che sembra segnata, chiusa su se stessa. Credo che in n dei conti il problema dell’integrazione non sia mai stato risolto e resta lì, al centro di una scena che rappresenta la Francia, anche se alla Francia non riguarda affatto. C’è un intero Paese che con Parigi non ha nulla a che fare».
Il lungomare di Napoli è deserto. Castel dell’ovo è un’ombra scura. Stefano Accorsi solleva il bavero del giaccone, cammina di buon passo, c’è un principio primaverile nell’aria che arriva dal mare. Dice: «Non mi sento solo. Ho imparato che possono nascere amicizie importanti anche in età adulta. Marco Balsamo ne è un esempio. Credevo fosse impossibile condividere una vera intimità una volta usciti dall’adolescenza. Be’, non è vero».
Dice: «Fare questo mestiere è un privilegio. Comporta una libertà preziosa, una quantità di opportunità da cogliere».
Dice: «Ma sì, in realtà credo di sentirmi bene, sono soddisfatto di ciò che posso e riesco a realizzare. Questo non mi impedisce di trascorrere qualche notte insonne, di avere a che fare con i misteri dell’ansia. Pensieri che passano e scuotono. I gli, le persone care, la percezione di un disturbo oscuro. Capita a tutti, non è vero?».
È tardi. Passano tre ragazzi in tuta. Si allenano correndo lungo via Partenope: «Mio glio ha cominciato a praticare pugilato. Speravo facesse rugby, che è uno sport di squadra, bellissimo. Niente da fare. Si allena, gli piace da matti. Del resto mica puoi obbligare un glio a fare ciò che desideri tu».
Un refolo di aria tiepida, è tempo di rientrare. Dice: «Mia moglie studia, sta per laurearsi, è molto giovane… Ha vent’anni meno di me». Compare all’improvviso un’espressione che profuma di timidezza e che lo rende di nuovo un ragazzino: «E comunque, in certi momenti del calendario, gli anni di differenza sono solo 19». È una battuta. Contiene ironia e, nel contempo, la grazia che rilasciano i sentimenti più caldi.
Nel ricostruire il processo fondativo della propria passione, Claudio Santamaria non ricorre a Michelangelo Antonioni e Pier Paolo Pasolini: «Da bambino vedevo le peggiori boiate. Nel paese di mia madre, in Basilicata, avevo un cugino che gestiva un cinema con le sedie di legno. Ci entrai per la prima volta a sette anni: il lm era Chi trova un amico trova un tesoro, di Sergio Corbucci». Da allora questo romano del 1974, con 35 titoli alle spalle, diretto da Ermanno Olmi, Bernardo Bertolucci, Nanni Moretti e Daniele Vicari, non si è più fermato. Ora, in sala con Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, gli pare di intravedere nell’ultimo lavoro la sintesi di un’epoca tramontata: «L’età in cui al versante intellettuale si af ancava gente che teneva il mestiere nelle proprie mani. Mainetti è uno di questi. Conosce la differenza tra un 35, un 70 e un 100, e sa che un carrello a stringere sul primo piano dell’attore è un qualcosa che non si improvvisa, perché fa parte di un linguaggio. Con lui mi sono sentito sicuro. Ero nelle mani di una persona che non girava, come il René di Panno no nella serie Boris, a cazzo di cane». A qualche pazzo, forse. Gian Maria Volonté si preparava per mesi, cambiava le parole, le scene, e i colori stessi della propria sceneggiatura, viveva in un altro cinema. Un cinema in cui ci si poteva fermare per due anni e affrontare con energia l’immersione totale in un progetto. Ora è più complicato e poi io sono discontinuo. Michele Placido mi ha detto che in scena posso essere bravissimo oppure dimostrarmi cane. Ed è vero.