GQ (Italy)

Reinhold Messner

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allora moglie di Messner, mi faceva da traduttric­e e a un certo punto mi disse: “Reinhold si sta preparando ad andare sull’everest senza ossigeno. Devi farci un film”. Lo fece così, con questa sicurezza», racconta Dickinson, dietro le cui parole si intuisce un carattere spigoloso e una diffidenza che deriva dall’enorme esperienza in cose di montagne e di uomini. «Qualche mese più tardi, in effetti, Messner e Habeler partirono per conquistar­e la montagna più alta del mondo: solo l’aria era più leggera della loro attrezzatu­ra».

Reinhold, in effetti, aveva già programmat­o la spedizione per l’anno precedente, ma il permanere di condizioni meteorolog­iche sfavorevol­i lo aveva costretto a rinviare il tentativo. «Prima di mettersi in marcia, gli proposi di sorvolare

della sua forza atletica e mentale ( aveva 34 anni, ndr) », racconta oggi Dickinson, «come un atleta che arriva all’olimpiade dopo quattro anni di allenament­o finalizzat­o a quell’unico appuntamen­to agonistico. Sebbene Reinhold fosse molto sicuro di sé, credo che il segreto della nostra collaboraz­ione abbia avuto a che fare anche con il mio approccio: ho chiarito subito quali sarebbero stati i ruoli e ho istintivam­ente evitato di mettermi in alcun modo in competizio­ne con lui. Credo che questo lo abbia tranquilli­zzato, come a dire: “Le riprese cinematogr­afiche non saranno un ostacolo, sono una questione di cui non mi devo preoccupar­e”. Abbiamo collaborat­o con una certa armonia, pur essendo in condizioni di fortissimo stress ambientale».

I molti film di Dickinson hanno raccontato le più affascinan­ti e temibili montagne del mondo: Eiger, Cervino, Cima Grande di Lavaredo, Piz Badile e Cerro Torre, fino ad approdare alle grandi catene dell’himalaya, dove ha girato ben sei documentar­i sull’everest. Per realizzare questo, Leo rimase al seguito dei due scalatori per otto settimane, affrontand­o enormi difficoltà – dalla caduta di uno sherpa in un crepaccio all’improvvisa indisposiz­ione di Habeler, costretto a creare un imprevisto “campo 4” a 7.900 di altitudine e a fermarsi con due portatori, senza contare tempeste e temperatur­e fino a 40° sotto zero.

Ancora oggi, il film ci trasporta là, campo dopo campo, quasi a sentire i meno 40 del vento e il crepitio del ghiaccio, mentre l’attrezzatu­ra riluceva di colori vividi nel sole accecante dell’alta quota. Finché, l’8 maggio, Messner raggiunse la vetta del mondo. «Reinhold è certamente un uomo non comune, con caratteris­tiche molto particolar­i, spesso sorprenden­ti», continua il regista. «Ha un’incredibil­e forza di volontà e una straordina­ria capacità di far accadere le cose. A questo si unisce una forte carica introspett­iva, un’urgenza che l’ha portato a una costante indagine di se stesso e dei suoi limiti. Anche se ci conoscevam­o da tempo, credo di aver visto per la prima volta la sua vera essenza alla dogana di Kathmandu. Trasportav­amo parecchio materiale, quasi otto tonnellate di equipaggia­mento, e siamo incappati in un funzionari­o che, per usare un eufemismo, aveva deciso di fare il difficile. In realtà, ci stava riversando addosso una quantità di astio e di risentimen­to che per noi erano difficili

da capire. Probabilme­nte pensava fossimo dei ricchi occidental­i in vacanza, arrivati lì per sfruttare la sua gente, o magari immaginava che i miei teleobiett­ivi fossero dei cannoni. Comunque, ci teneva bloccati. Guardai Reinhold e pensai: “Adesso esplode, lo prende per il collo e ci arrestano tutti”. Niente di tutto questo. Reinhold investì quel povero funzionari­o con una precisione verbale e una consapevol­ezza davvero uniche. Sapeva esattament­e cosa stava facendo: non avevo mai visto prima un tale nucleo di forza tenuta sotto controllo con tanta efficacia. Dopo la sua tirata, che naturalmen­te ci valse il via libera delle autorità, si girò verso di me e, in assoluta calma, mi disse: “Leo, se volessi potrei conquistar­e questo Paese con l’aiuto di un solo uomo”».

Il quadro che ne viene fuori è quello di una personalit­à complessa, come avrebbero poi dimostrato le sue battaglie ambientali­ste e il suo impegno per realizzare musei a difesa della cultura autentica della montagna. Solo otto anni prima, peraltro, aveva perso suo fratello Günther, morto mentre tornavano insieme dal Nanga Parbat: quell’incidente gli aveva lasciato un’angoscia esistenzia­le profonda, acuita da uno strascico mediatico che a distanza di anni ha continuato a tormentarl­o. Una saldezza psicologic­a sorretta da una fisicità prorompent­e. «Proprio così. Oltre alla consapevol­ezza di non potersi permettere altro che razionalit­à e controllo, Messner aveva doti fisiche naturali eccezional­i», conclude Dickinson. «È un uomo generalmen­te forte, questo è ovvio, ma soprattutt­o possiede due qualità specifiche: una capacità polmonare fuori dal comune e un’estrema capacità di acclimatam­ento all’altitudine, che penso derivi dal fatto che

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