IL LAVORO CHE FAI, LA PERSONA CHE SEI
Stiamo per tornare alle nostre scrivanie, ma che prezzo siamo disposti a pagare per la sicurezza di un impiego? Un racconto esclusivo del Nobel per la Letteratura
Per avere quei due dollari non dovevo far altro che pulire la Sua casa per alcune ore, dopo la scuola. Era una bella casa, per giunta, con divano e poltrone ricoperti di plastica, moquette azzurra e bianca su tutto il pavimento, una cucina a gas di smalto bianco, una lavatrice e un’asciugatrice: cose comuni nel Suo quartiere, assenti nel mio. Mentre la guerra era in pieno corso, Lei aveva burro, zucchero, bistecche, calze con la cucitura dietro. Io sapevo come si strofinavano i pavimenti in
ginocchio e come si lavavano i vestiti nel nostro catino di zinco, ma non avevo mai visto un aspirapolvere Hoover né un ferro da stiro che non fosse riscaldato sul fuoco.
In parte, ero fiera di lavorare per Lei perché guadagnavo dei soldi che potevo sperperare: in film, dolciumi, racchettoni, jacks e coni gelato. Il mio orgoglio però si basava soprattutto sul fatto che davo metà della paga a mia madre, il che significava che una parte dei miei guadagni veniva utilizzata per cose concrete: il pagamento di una polizza assicurativa o il conto del lattaio e del venditore di ghiaccio. Il fatto di essere d’aiuto ai miei genitori mi dava una soddisfazione profonda. Non ero come i bambini delle favole: costose bocche da sfamare, monelli da correggere, problemi così gravi da dover essere abbandonati nel bosco. Avevo raggiunto uno status che lo svolgimento dei lavori domestici a casa mia non garantiva, e mi procurava i pacati sorrisi, i cenni di approvazione degli adulti. Conferme del fatto che anch’io ero un’adulta, non più una bambina.
A quei tempi, negli anni Quaranta, i bambini non erano soltanto amati e vezzeggiati; c’era bisogno di loro. Potevano guadagnare qualcosa, occuparsi dei fratelli più piccoli, lavorare nei campi, badare agli animali, svolgere commissioni e molte altre cose. Ho la sensazione che ora non ci sia più quel particolare bisogno di bambini. Vengono amati, protetti, vezzeggiati e aiutati. D’accordo, eppure...
A poco a poco, diventai brava a pulire la Sua casa, abbastanza da vedermi affidare ben altri compiti. Fui incaricata di trasportare casse di libri da un piano all’altro e, una volta, di spostare il pianoforte da una stanza a un’altra. Caddi nel portare le casse di libri, e dopo aver spinto il pianoforte le braccia e le gambe mi facevano un male terribile. Mi sarei voluta rifiutare o almeno lamentare, ma avevo paura che Lei potesse licenziarmi, e a quel punto avrei perduto la libertà donatami dal dollaro, insieme allo status che questo mi garantiva a casa... sebbene queste due cose cominciassero entrambe a ridursi. Cominciò a offrirmi i Suoi vestiti al posto dei soldi. Io, colpita da quelle robe di seconda mano che parevano stupende a una ragazzina provvista di due soli vestiti da mettere per andare a scuola, ne comprai alcuni. A un certo punto mia madre mi domandò se davvero mi andava di lavorare in cambio di vestiti di scarto. Imparai, allora, a rifiutare, dicendo “no, grazie” a un maglione sbiadito che mi era stato offerto in cambio di un quarto della paga settimanale.
Facevo fatica, però, a trovare il coraggio di sottrarmi o di sollevare obiezioni alle crescenti richieste che Lei mi faceva. Sapevo, inoltre, che se avessi parlato con mia madre della mia insoddisfazione lei mi avrebbe detto di lasciare il lavoro. Un giorno, in cucina con mio padre, buttai lì un
A un certo punto mia madre mi domandò se davvero mi andava di lavorare in cambio di vestiti di scarto. Imparai, allora, a rifiutare, dicendo “no grazie” a un maglione sbiadito che mi veniva offerto in cambio di un quarto della paga
paio di lamentele a proposito del lavoro. Gli fornii tutti i particolari, esempi di quello che mi infastidiva, ma dal suo sguardo, anche se mi ascoltò con attenzione, non trapelò alcuna compassione. Nessun “oh, poverina”.
Forse aveva capito che non volevo fuggire dal lavoro, bensì soltanto trovare una soluzione. Come che fosse, posò sul tavolo la tazza di caffè e disse: “Sta’ a sentire: tu non vivi lì. Vivi qui, con la tua famiglia. Va’ a lavorare, fatti pagare e torna a casa”. Così parlò mio padre. E io lo interpretai così: 1. Qualunque lavoro tu faccia, fallo bene, non per il tuo capo, ma per te stessa.
2. Sei tu che fai il lavoro; non è il lavoro che fa te.
3. La tua vera vita è qui con noi, con la tua famiglia.
4. Tu non sei il lavoro che fai; sei la persona che sei.
Ho lavorato per gente di tutti i tipi, da allora: persone geniali e imbecilli, gente brillante e gente ottusa, con un cuore grande o di pietra. Ho fatto lavori di tanti tipi, ma dopo quella conversazione con mio padre non ho mai pensato che il livello del lavoro fosse la misura di quel che ero e non ho mai messo la sicurezza di un posto di lavoro davanti ai valori ricevuti in famiglia.